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Cultura

RELIGIONI DI PACE

LIVIO GHIRINGHELLI - 16/09/2016

meccaL’assalto alla chiesa di Saint-Étienne nelle vicinanze di Rouen in Francia, con il martirio sull’altare di padre Jacques Hamel,  sacerdote esemplare per santità, pieno di zelo pastorale e animato dalla carità del dialogo nel rapporto colla comunità musulmana, tanto da essere  definito dall’imam un fratello (gli aveva tra l’altro ceduto il terreno per costruirvi la moschea), ha suscitato profondo sconcerto  e commozione.

Ucciderlo nel nome di un Dio di morte  ha voluto, come in tanti altri casi e situazioni,  dimostrare, come ha sottolineato papa Francesco,  che non si tratta in verità di una guerra di religione scatenata nei continenti in nome di una fede autentica,  quanto di una guerra di denaro  e di potere, di egoismi e di chiusure. Dai ghetti mentali  dei terroristi  sparsi nel nostro continente  all’infuriare delle devastazioni  disumane e delle stragi, degli eccidi operati in Siria, Yemen, Libia ed in molti territori dell’Africa  e dell’Asia  si crede nell’equivalenza  religione islamica (con le conseguenti guerre di religione)-estremismo coranico, tutta da dimostrare.

 Lo scorso 31 luglio  cristiani e musulmani illuminati in tante chiese d’Italia e di Francia hanno voluto accogliere l’invito  lanciato dal Consiglio  francese del culto musulmano  e dalla Coreis (Comunità religiosa islamica italiana) e dal nostro clero  per una preghiera di testimonianza in comune  a favore della pace  e contro l’odio scatenato su più fronti.

L’assassinio in un luogo di culto  d’un prete stimato  da tutti ha mosso  anche le coscienze dei musulmani. Pure il grande imam  di al-Azhar,  la più alta autorità del mondo islamico sunnita, ha levato alta dal Cairo   la sua voce di condanna. Pas en mon nom è echeggiato: nessuna equivalenza tra Islam e terrorismo.

Siamo tuttora lontani  dallo spirito e dalla coscienza critica   della Dichiarazione di Marrachesh (27 gennaio 2015), in cui 250 illustri studiosi  islamici si sono proposti  di “eliminare ogni argomento  che istighi  all’aggressione e all’estremismo,  portando alla guerra e al caos”, ritenendo inconcepibile  usare la religione  per colpire i diritti delle minoranze  nei Paesi musulmani.

Il richiamo alla Carta di Medina, che garantiva indistintamente la libertà religiosa 1400 anni fa, ne è la prova. Anche nell’ambito della teologia islamica  contemporanea il pensiero di uno studioso minoritario  come Abu Zayd  (1943-2010),  accusato dai fondamentalisti d’apostasia, ci riconduce a una lettura storicistica  del Corano. I diversi versetti  che accennano alla pace e alla guerra  sono stati rivelati in risposta  a precise circostanze storiche.

Per esempio la condanna degli ebrei  ritenuti come gli avversari più accaniti  deve essere contestualizzata.  Momento chiave  l’anno 627  quando i meccani  (dopo la vittoria sui musulmani  del 625  presso il monte Uhud,  che vede ferito Maometto) tornano ad avanzare  e ad assediare Medina,  ma devono ritirarsi  dopo alcune settimane.  Il Profeta decreta allora  la cacciata di tutte le famiglie  ebree, sospette di simpatizzare  coi nemici: vengono uccisi 600 uomini,  venduti mogli  e figli come schiavi.

In precedenza Maometto, considerandosi colui che ha rinnovato la religione d’Abramo, alterata dai popoli del Libro, li ha definiti empi, infedeli, miscredenti. Ma la nuova rivelazione,  pur essendo la sintesi definitiva delle precedenti, il loro Sigillo, Cristianesimo incluso, non pretende di abolirle del tutto.

Quanto annunciato e prescritto nel Corano è conseguenza naturale  del patto biblico,  sancito in tempi e con modalità diverse. Grazie al meccanismo di protezione della dhimma  le comunità della gente del Libro  sotto governo islamico possono pertanto continuare a professare  la propria fede e a governarsi secondo le proprie leggi (principio di tolleranza), purché si assoggettino a una tassa speciale  e si adeguino all’ordine politico islamico, rimanendo escluse dalle cariche statali.

Sta scritto: “Non c’è costrizione nella fede” (Sura 2,256).  La storia dell’Islam  non ricorda neppure un solo caso  di conversione forzata. Sura 5,69: “Quanto a coloro che credono,  e gli ebrei e i sabei e i cristiani – quelli  che credono in Dio  e nell’ultimo giorno e fanno il bene – non hanno nulla da temere,  non patiranno tristezza alcuna”.  Sura 4,125: “Chi mai può scegliere una religione migliore di questa: sottomettersi a Dio facendo del bene  e seguire la comunità d’Abramo  in fede pia?  Dio si è preso Abramo come amico”.  Sura 29,46: “Discutete con la gente del Libro  solo nel modo migliore – fuorché con i colpevoli – e dite : crediamo  in quello che è stato rivelato a noi ed è stato rivelato a voi,  il nostro Dio e il vostro Dio sono un solo Dio, noi tutti siamo sottomessi  a Lui”.  Con la sottolineatura di cui  alla Sura 5,82: “Troverai  che i più ostili ai credenti  sono gli ebrei e gli idolatri,  mentre troverai che gli amici  più prossimi ai credenti sono quelli che dicono: siamo cristiani” (letteralmente: siamo nazareni) a causa del sacerdozio e del monachesimo  esempio di umiltà, mentre si rimprovera ai dottori  degli ebrei un superbo disprezzo per le opinioni altrui. Segni anche  della simpatia provata  dai musulmani  verso la Chiesa etiopica.

 Soprattutto campeggia la Sura 2,208: “Voi che credete, entrate tutti nella pace e non seguite le orme  di Satana,  che è un vostro chiaro nemico”.

Per quanto ecumenicamente disposto  al dialogo,  ma nella distinzione dei vari enunciati, l’Islam ben difficilmente  può conciliarsi  alla reintegrazione di principi  contraddetti dalle  sue convinzioni fondamentali (unitarismo nella concezione di Dio di contro al trinitarismo dei cattolici, negazione del peccato originale rispetto alla necessità dei cattolici di avere in Cristo l’Uomo-Dio  che vicariamente riscatta  l’uomo dal peccato  grazie alla morte in croce,  è respinta ogni rappresentazione  antropomorfa di Dio – Cristo è solo oggetto della storia dei Profeti, sono rifiutati il battesimo e l’Eucaristia, i sacerdoti anche nella frazione sciita  non espletano  alcun genere di funzione sacra, non si rinviene alcun culto  o possibilità di intercessione  da parte di Maria – solo onorata – e dei santi  sulla via della salvezza). L’intercessione appartiene interamente a Dio.

La professione di fede per l’Islam  si compone di sei articoli: 1) fede nell’unico Dio, cui è dovuta incondizionata sottomissione, ma anche riconosciuta pace  (salām) e salvezza;  2)  fede negli angeli;  3) fede nella Rivelazione  e nelle Sacre Scritture;  4) fede negli inviati di Dio;  5) fede nella resurrezione dopo la morte  e nel Giudizio universale; 6)  fede nella predestinazione divina  (principio specificamente islamico), cui si aggiunge per gli sciiti  fede nell’imam. Sura 21,25: “Non c’è altro Dio all’infuori di me,  perciò adorate me”. Se per certi versi la fede produce sul cammino del mondo l’intervento determinante di Dio, la pretesa che i fedeli lottino e si sforzino  per realizzare la volontà di Dio  a prescindere dai successi ottenuti  e dalle realizzazioni introduce però il criterio  del libero arbitrio, della responsabilità  dell’uomo.

Secondo i Sunniti l’Islam poggia su cinque pilastri  (arkān): la shahāda, professione di fede; la șalāt, preghiera rituale; la zakat, la carità od offerta  con fini umanitari;  il sawān, il digiuno del mese di ramadān; il pellegrinaggio alla Mecca, lo hağğ. Con l’aggiunta presso i khārijti e gli ismailiti  della gĭhād, la guerra santa (letteralmente: sforzo, impegno). Intesa in un primo tempo  come lotta contro gli aggressori e gli apostati, contro una società ingiusta e caratterizzata dall’ignoranza, venne condotta in seguito per ampliare ed arricchire  il dominio territoriale degli Arabi.

Il concetto di ummāh (comunità), prima intesa in senso mondiale  come ecumene ebraico-cristiano-musulmana  venne solo più tardi  ristretto  alla sua dimensione infra-islamica.

In base al diritto islamico il mondo è suddiviso  in dār  al-Islām (territorio islamico) e dār al- harb (territorio della guerra) potenziale teatro di guerra, perché l’obbligo della gĭhād dovrebbe continuare a sussistere fino al momento in cui il mondo intero  sia sottomesso  alla legge musulmana  e quindi agli ordinamenti politico religiosi di Allah. Una guerra di reazione e di difesa  contro gli aggressori  del nuovo e unico messaggio  muta natura e verso.

Ma il Corano insegna  il perdono e la magnanimità  verso il nemico vinto; comportamento e spirito di vendetta  non fanno parte dell’Islam,  almeno nei principi teorici, un tempo anche nella prassi. Nell’Islam ha poi un notevole rilievo  l’eguaglianza degli uomini,  a prescindere dalla  razza   e dalla nazionalità. Il principio supremo del comportamento  sociale suona così secondo il Corano: “I credenti sono soltanto fratelli”. La fede  in Dio è la base e il presupposto di tale fratellanza; i non credenti però non debbono rimanere esclusi  dalla solidarietà.

Se la giustizia assume nell’Islam  una posizione apparentemente più importante  del comandamento dell’amore,  in verità l’amore  è anche per l’Islam  una forma superiore  dei rapporti sociali.  Così Maometto come  abbozzo: “È giusto quell’uomo  che riesce a dare agli altri  tanto amore  quanto ne desidera da loro perse stesso”.

Nel mondo islamico la coscienza politica  si è sviluppata storicamente come parte dell’identità  religioso-culturale  dei musulmani, anche se vari elementi  sono una costruzione dei successori  di Muhammad. Del califfato non si fa cenno  ad esempio né nel Corano né nella tradizione (sunna). Nella mentalità islamica  non c’è distinzione  tra comunità religiosa e organizzazione politica, per cui la sharī’a assurge a fonte del diritto sia religioso che statale,  entrambi da ricondurre ad Allah, supremo legislatore: essa regola i rapporti dei fedeli  con Allah, con il prossimo e la comunità,  facendo rientrare tutte le azioni umane in cinque categorie: azioni necessarie, raccomandate, indifferenti, riprovevoli, proibite.

Qui il pericolo di una codificazione  dettata in alcuni punti  da preoccupazioni eminentemente  o esclusivamente politiche nel corso della storia. Se per un verso lo Stato dell’Islam lascia scorgere  una struttura teocratica,  per l’altro è autorizzato  ad esigere dai sudditi  l’obbedienza alla legge di Dio  con autorità e pieni poteri. Il capo del governo deve in ogni caso sottostare  a determinate condizioni,  conoscendo quanto prescritto  dal Corano, consultando altri membri della comunità.

Il codice morale dell’Islam  contiene comandamenti e divieti  paragonabili a quelli del Decalogo.  Questo è il piano privilegiato di una possibile intesa  tra le fedi  nella devozione a un Padre comune, che nel versetto iniziale d’ogni Sura  è definito il clemente, il compassionevole, Dio della misericordia e del perdono.

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