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Politica

ALL’ITALIANA

MANIGLIO BOTTI - 16/06/2017

elezioneCrediamo poco all’utilità di esercitarsi nello studio della storia contraffattuale. Cioè immaginare quali sarebbero stati gli eventi successivi se i fatti, per una ragione o per altra, fossero andati diversamente da come poi sono andati nella realtà. Se Hitler fosse riuscito a invadere l’Inghilterra. Se Mussolini invece che dichiarare guerra agli Alleati se ne fosse stato tranquillo a fare vacanza a Riccione. Sono esercizi interessanti dal punto di vista della ginnastica mentale, forse, ma del tutto accademici, intellettualistici e dunque inutili sotto l’aspetto pratico.

Ciò premesso, troviamo abbastanza sterile recriminare o sproloquiare ancora a come oggi sarebbero potute essere diverse le cose se il 4 dicembre scorso gli italiani avessero detto sì alla riforma costituzionale proposta dal parlamento (e sostenuta a spada tratta dal governo Renzi), quando invece hanno detto no con larga maggioranza.

Ma una cosa, crediamo, la si possa affermare: buona o cattiva che fosse quella era una riforma costituzionale italiana, che per la prima volta in quasi settant’anni di storia ultima e recente metteva mano al nostro ordinamento dello stato, riducendo i parlamentari, eliminando di fatto la seconda camera (il senato), che diveniva camera delle regioni, portando la prima camera – sottoposta a una legge elettorale ben chiara e determinata nei suoi componenti da un probabile ballottaggio con premio di maggioranza – a definire un governo stabile, per almeno cinque anni. Era una riforma “italiana”, probabilmente ancora modificabile nelle sue parti meno chiare, che tutti dicono (dicevano) essere in quella parte ordinamentale. Il popolo degli elettori, invece, l’ha considerata una legge “all’italiana”, pasticciona e caotica. E qualche mese dopo anche la corte costituzionale è intervenuta (opportunamente forse, ma solo perché la riforma era stata bocciata dal voto referendario confermativo) togliendo alla legge elettorale esistente – il cosiddetto Italicum – l’unica caratteristica di sostanza, il ballottaggio, ma lasciando in vita il premio di maggioranza.

La ragione della decisione della Consulta – crediamo – fu dovuta al fatto che ci si sarebbe trovati a eleggere due camere (il senato, che era stato mantenuto in vita così com’è sempre stato) con due leggi elettorali diverse.

Sembrava, allora, che con la riforma della Costituzione dovesse cadere il mondo. E che, allora, i partiti (specie gli oppositori della riforma) e i parlamentari avessero presto fatto le giornate intere, ore piccole comprese, pur di adempiere agli impegni promessi e di far vedere a tutti gli italiani che le cose si potevano fare, e meglio, di quanto invece aveva deciso il parlamento esistente in due anni e passa di dibattiti e con migliaia di emendamenti sottoposti e discussi (la Lega, con il suo esperto Roberto Calderoli, all’inizio ne aveva presentati al dibattito più di ottanta milioni, tant’è che per discuterli si sarebbe dovuto aspettare l’arrivo dei marziani sulla Terra).

Silenzio per mesi. Non era successo niente. Adesso, in queste ultime settimane, s’è dato invece frettolosamente inizio a un dibattito di riforma della legge elettorale, pur tra tanti distinguo. Legge elettorale, si badi bene, che è “semplicemente” una legge ordinaria e non una legge costituzionale. Mettendo nella stessa stanza, perché trovassero un accordo, un lupo, una iena, uno sciacallo e un avvoltoio. Sembrava, visti certi abbinamenti, che l’accordo fosse stato trovato. Invece no.

Morale. La legge elettorale – una proporzionale con uno sbarramento piuttosto alto (il cinque per cento), che per le sue somiglianze piuttosto vaghe (o secondo alcuni addirittura inesistenti) con quella in vigore in Germania era stata subito battezzata Tedeschellum o Germanichellum – è naufragata in un batter d’occhio, in una fumera di urla di frizzi e di lazzi. Eppure, dicono, era una legge “alla tedesca”, insomma, e per noi “copioni” che per quasi dieci anni abbiamo votato con una legge denominata Porcellum sembrava essere il massimo della vita.

Che dire. Quando qualche settimana fa è stato eletto in Francia il nuovo presidente Emmanuel Macron abbiamo pensato, riflettuto (e magari anche pensato di votare) “alla francese”. Parigi e Milano erano la stessa cosa. Siamo (stati) tutti francesi. Poi con maggior prudenza siamo passati ai tedeschi. Per poi tornare subito agli italiani.

È venuto in mente (solo per un attimo) il discorso del 3 gennaio del ’25 che Mussolini tenne al Paralamento: “L’Italia, o signori, vuole la pace, vuole la tranquillità, vuole la calma laboriosa; gliela daremo con l’amore, se è possibile, o con la forza se sarà necessario. Voi state certi che nelle 48 ore successive al mio discorso, la situazione sarà chiarita su tutta l’area”. In seguito, col trascorrere degli anni anche Mussolini cambiò idea – tipico nel Bel Paese – specie nel desiderio di pace e nella ricerca di una “politica dell’amore” cui si preferì quella della forza.

Fu evidente una sola cosa: nelle successive quarant’ott’ore la “situazione si chiarì su tutta l’area”. Almeno quello.

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