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Editoriale

CAPITALI

MASSIMO LODI - 13/10/2017

galimberti-maroniCapitale/1.
Parliamo di referendum in Veneto e Lombardia. Soprattutto Lombardia, che c’interessa da vicino. Era necessario? No. E’ costoso? Sì. Cambierà, a seconda dell’esito, lo stato delle cose? No, perché se miglioramenti sono possibili alla condizione attuale del regionalismo, sarebbero comunque venuti anche senza un voto consultivo. La dimostrazione è data dall’Emilia Romagna che chiede oggi, evitando di mobilitare i cittadini e le loro risorse, ciò che chiederemo noi domani, a urne prima aperte e poi chiuse. Perché pagare per sollecitare/ricevere ciò che potremmo avere gratis?
Si può capire che la Lega (la Lega nordista, non quella sovranista) abbia insistito a proporlo: ne avrà un vantaggio politico, se finirà come spera. Non si può capire il Pd, che le è corso dietro per non rischiare di concederle spago. Opportunismo e basta, come all’epoca della stucchevole/negativa gara a chi era più federalista. La conferma viene dall’assenza dei Democrats nella campagna elettorale: dicono una cosa, ne fanno un’altra. Bastava che dichiarassero (come ha dichiarato Alfieri, segretario regionale, purtroppo in minoranza): asteniamoci. Perché siamo ovviamente d’accordo sulla banale sostanza della questione, non sul modo furbo di maneggiarla. Macché. E’ l’ennesimo errore d’una stagione sfortunata (solo sfortunata?) della sinistra riformista, peraltro fortemente divisa al suo interno. Tanto per cambiare.
Tale sinistra gode d’un significativo capitale di credito popolare. A volte perfino imponente (pensiamo al verdetto delle ultime europee). Però regolarmente lo sperpera, si dimostra volubile, quando non degna d’affidabilità. E’ la stessa sinistra riformista che grida allarmata alla deriva estrema, censurando l’ondivaghismo dei CInquestelle oltre che le asprezze della coppia Salvini-Meloni. Ma se la radicalità/demagogia si afferma, ciò accade in virtù degli spazi d’insofferenza che le vengono lasciati. Spazi? Praterie sconfinate.

Capitale/2.
Parliamo di Festival del paesaggio a Varese. Successone, il resto sono chiacchiere. Talvolta stizzose, puerili, miserande. E’ successo quanto segue. Scelta l’idea-guida per il futuro della città (valorizzare ambiente, arte, storia), ci si è investito sopra. Pubblicizzando la nostra tipicità. Esportando un marchio. Richiamando il valore della bellezza. Risposta grandiosa/emozionante: sold-out ogni evento, domanda superiore all’offerta, cambiamento totale dell’immagine prealpina extra moenia. E’ il primo passo verso l’affermazione di un profilo identitario che renderà unico all’occhio del vasto pubblico il territorio del Liberty, delle ville sontuose, dei parchi-shocking.
Le aspettative erano importanti. La risposta lo è stata ancora di più. Vi si coglie, nella sua ampiezza, la confortante esistenza d’un mondo sostanziale assai diverso dal virtuale. Lontano da superficialità e cazzeggi. Vicino al conoscere/sapere profondo. Platee affollate ad ascoltare, di parco in parco di villa in villa, la lettura dei capitoli del “Barone rampante” di Calvino. Idem a proposito dei concerti, un crack quello al Campo dei Fiori col violoncellista Brunello.
Eravamo rimasti al “Capitale umano” di Virzì, anno 2013. Gli scenari bosini, il primo dei quali la lugubre quinta di piazza della Repubblica costituita dalla caserma in degrado, presi a esempio/sfondo della rappresentazione filmica d’un decadentismo borghese d’imprinting veteropadano. Siamo passati a un capitale culturale di cui conoscevamo l’esistenza, e però non sospettavamo quanto avrebbe prodotto se valorizzato. Ci sono voluti coraggio, competenza, tenacia. Averli dimostrati non è solo motivo di fierezza d’un sindaco e d’una giunta, ma di orgoglio anche per un’intera comunità. Bisognerebbe (bisogna) avere l’onestà intellettuale di riconoscerlo anche da parte di chi non ha il piacere di condividere una gratificante gioia.

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