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Editoriale

CAPOLAVORI

MASSIMO LODI - 16/11/2017

lagoCapolavori/1. Solo un deus ex machina di tradizione antica avrebbe potuto architettare lo scenario nel quale s’è consumata l’eliminazione tragicomica degli azzurri dai mondiali di calcio. Pensateci un po’. Un presidente di federazione che sale tra gli applausi al trono della pedata dopo il drammatico/ridicolo assunto “Opti Poba è venuto qua, che prima mangiava le banane e adesso gioca nella Lazio”. Un allenatore dalla fama di rigoroso perdente, privo di titoli nazionali (mai conquistato lo scudetto) e di successi internazionali (figuriamoci: mai frequentate simili arene). Una squadra abborracciata, causa il mix tra post campioni in modalità “pensionando” e post promesse mai divenute qualcosa di diverso. A far da sfondo un’organizzazione deficitaria da ogni punto di vista: stadi obsoleti, salvo rare eccezioni; scuole tecniche poche e scarsamente finanziate, quando non del tutto lasciate alla buona volontà di cocciuti individualisti; vivai basati sul censo, cioè per portarci il bambino devi pagare e se non hai i soldi peggio per te. Peggio per il bambino. Peggio per l’intero baraccoone, perché la fila dei ragazzini esclusi, magari potenziali fuoriclasse, è lunga dal Brennero a Trapani. Che risultato esprime quest’insieme? Il risultato dell’annunciata apocalisse. Qualcosa di eccezionalmente perfetto nel suo catastrofismo, tanto da ergersi a modello di come si deve fare per guadagnarsi la sconfitta. Impossibilitati a vincere su molti fronti, abbiamo dimostrato d’essere i migliori a corrispondere alla vocazione inversa. Una curiosa maestria, della quale è giusto che s’intesti il merito chi sta in cima alla catena di trasmissione del virtuosismo all’incontrario: la politica. È la politica che nomina i dirigenti dello sport, che scelgono i sottopancia, che chiamano accanto a sé la truppa dei mediocri.

Capolavori /2. Qualcuno crede al rassemblement della sinistra? Nessuno che sia razionale. Renzi ha scalato le posizioni dentro il Pd per rottamare (ah, quella parola allo zen sfuggita) la vecchia guardia, D’Alema e Bersani inclusi, se non in primis. D’Alema e Bersani sono usciti dal Pd per fare lo stesso con il rampante magico, cioè con Renzi. L’idea di rimettere insieme gli opposti è un diritto da esercitare, non c’è dubbio. Però la possibilità che si traduca in atto, appare remota. Lo dimostrano le richieste dei dissenzienti, divenuti un nuovo partito, cioè l’Mdp: per riconiugarsi dopo il divorzio, non solo Renzi deve mollare la segreteria dei democrats, ma i democrats devono rinnegare le scelte marchianti del governo Renzi e cui ha dato un seguito Gentiloni. Eccola qui, l’acrimonia citata da Veltroni. Vincerla è più difficile, all’occhio dei post comunisti, che riconoscere le nefandezze compiute in epoche (meno male) ormai lontane dai compagni sovietici. E accettare la demonizzazione del loro leader è, all’occhio dei post democristiani, meno facile che rinnegare le ragioni del compromesso storico negli anni moroteo-andreottiani. Sicché solo un miracolo scongiurerà il perpetuarsi di questo dissidio dall’epilogo mortifero. Ridono berluscones, salviniani, melonisti e grillini: neppure a studiarla scientificamente, sarebbero riusciti a confezionare una simile meraviglia dell’arte politica pro domo loro.

Capolavori/ 3. Giletti è il bravo giornalista. Conduceva su Raiuno un programma di largo ascolto, “L’arena”. Ritenuto a un certo punto  troppo gridato, col rischio di derive sulla sponda demagogica. Gli han detto: stop, si cambia. Se vuoi, ti proponiamo altro. Non ha accettato, per orgoglio professionale. Bene, onore a lui. Merito e fortuna gli han procurato subito un nuovo editore, una nuova trasmissione, un nuovo pubblico. Viva il pluralismo, l’offerta del mercato libero, le occasioni d’impiego che (quandoque) si presentano a chi dispone di talento e determinazione. Però, e siamo al punto: raccontata una volta questa storia, poi basta. L’hanno capìta tutti, la folla dei teleutenti/cittadini è meno tarda di quel che si crede. Invece no. Giletti titola con vis polemica “Non è l’arena” il suo news-approfondimento su La7, e non ce n’era bisogno. Indi si colloca nel medesimo orario di “Che tempo che fa” del collega Fazio, a cercare un’enfatica sfida. E non ce n’era bisogno. Infine esordisce rifacendo la tiritera della sua personale vicenda. E non ce n’era bisogno. Avrebbe riscosso comunque il meritato trionfo d’ascolti ottenuto. Giletti è semplicemente incorso nel destino cinico che va previsto, lavorando in un’azienda dal profilo politicizzato come la Rai. Fa capo al parlamento, è dominata dai partiti, rappresenta una pietra angolare del cosiddetto sistema: se ci stai dentro a lungo e ne accetti le regole, appare bizzarra la dissociazione ripetuta fino alla noia quando viene presa una decisione che non ti garba. Una tale antinomia dà l’idea (sbagliata?) d’una sorta d’incompatibilità con sé stessi: formidabile (qualora giusta) exploit d’incoerenza.

Capolavori/4. Il Verbano Cusio Ossola sogna la secessione dal Piemonte per annettersi alla Lombardia. Torino adieu, Milano eccoci. In poco tempo il comitato sorto per iniziativa d’un ex senatore di Forza Italia ha raccolto, nei gazebo allestiti a Verbania e Domodossola, tre delle cinquemila firme necessarie a indire il referendum. I promotori sono sicuri di raggiungere l’obiettivo entro Natale. In caso di successo della consultazione (quorum al 40 per cento), il Parlamento dovrà legiferare ridisegnando i confini del Nord Ovest italiano. Sarà naturalmente vincolante il parere favorevole della regione oggetto del trasloco. Il governatore Maroni ha già comunicato: vi aspettiamo a braccia aperte. Un po’ perché lo sfruculia lo sberleffo al pari grado sabaudo Chiamparino, un po’ perché davvero e con giusti motivi crede alla bontà dell’operazione. Cioè: se esiste un territorio omogeneo, esso è quello dell’alta Lombardia/alto Piemonte. La storia, l’economia, la cultura ne sono testimonianza. Dunque potremmo finalmente vedere trasformato il Lago Maggiore da elemento divisivo tra due sponde a fattore unificante delle medesime. Così era una volta, così potrebbe tornare ad essere. Il quadro d’insieme della nuova geografia politica ne risulterebbe a colori d’un fascino talmente appagante da farci incorrere nella sindrome di Stendhal. Non a caso un frequentatore assiduo/innamorato di questi luoghi, belli da far girare la testa.

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