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Editoriale

UTOPIA

MASSIMO LODI - 01/12/2017

renziProvo a dirvi qualcosa, cari lettori, a margine del trito schema renziani-antirenziani. Lasciamo perdere la politica per una volta, e guardiamo alle persone. Alla persona. Al valore che sembra esprimere, e merita d’essere citato come corpus di un’opinione.

M’è capitato, la scorsa domenica, di ascoltare il discorso dell’ex premier in chiusura della Leopolda di Firenze. Non esploro i contenuti, resto alla forma (che tuttavia è sostanza). La definisco forma per comodità, giusto a far intendere che qui non interessa l’apprezzamento/la critica delle strategie del leader Pd. Importa altro.

E dunque. La forma -bene esplicitata dal tono, oltre che dalla ratio, del suo intervento- narra d’un tipo che ha prima vinto, poi perduto, ancora rivinto e riperduto. Ma non s’è arreso, seguitando a credere in sé stesso, nelle sue idee, negli amici, nella gente che gli ha dato/rinnovato la fiducia. Tramontata l’epoca del giglio magico, non vi è subentrata quella del ciglio tragico. Molti, lagnandosi, sarebbero scomparsi dalla scena dopo la bruciante sconfitta, giusto un anno fa, nel referendum costituzionale. Lui s’è dimesso -e non gli toccava in automatico- da presidente del Consiglio, ha lasciato la guida del partito, organizzato un congresso, favorito il partecipare degl’iscritti (e di chiunque lo desiderasse) alle primarie per la scelta del nuovo segretario dei democratici. Il verdetto popolare ha stabilito che succedesse a sé stesso.

Questa si chiama tenacia. Aggiungo: coraggio. Perfino sogno. Esagero, però con presunzione realistica. E siamo al punto. La parabola di Renzi, simpatico o antipatico ch’egli sia percepito, racconta della forza di perseverare nell’utopia anche quando ci si trova in condizioni di debolezza.

Che cos’è l’utopia? Aiuta a comprenderne il significato una frase paradossale del filosofo Bertrand Russell: non sapere che il progetto che s’intende realizzare è impossibile, e proprio perciò realizzarlo. Ovvero: bisogna regolare la vita non sul minimo sufficiente, e invece puntare verso l’alto, in avanti, lontano. Se ci si riduce al mero calcolo (opportunismo) e al quieto vivere (deresponsabilità), subentra la rassegnazione al grigiore. Al tratto conformistico. Alla paralisi del Paese, nel caso d’un capo di partito che coltivi ambizioni istituzionali o addirittura ne abbia già soddisfatte alcune e mediti di rinnovarle.

La lezione di Renzi -tale appare, al netto delle umoralità partigiane e a meno che non la si voglia definire morality tale, come usano gli americani- è quella del virtuosismo della coerenza/costanza a fidare in un progetto. Certo modificandolo in corsa, cambiando qualche compagno di viaggio, adeguandolo a scenari cambiati. Ma sempre nel solco d’una determinazione positiva, al modo tipico di Berlusconi (proprio così, absit iniuria politica: i due si somigliano, piaccia o dispiaccia). La dovrebbero apprezzare gli amici-nemici e anche i nemici-nemici. Serve a tutti la continuità d’un modello di comportamento leale al suo archetipo.

So, cari lettori, che tanti di voi dissentiranno. So che Renzi e il renzismo rappresentano il bersaglio grosso/preferito degl’italiani. So che una moltitudine illividisce al solo nominarlo. Ma so che la fedeltà all’Elogio della follia di Erasmo da Rotterdam giustifica e autorizza il poco che qui vi ho raccontato.

ps e promemoria: 1) i 18 milioni di euro confermati a Varese per il progetto delle stazioni si debbono a un bando del governo Renzi, cui il sindaco neoletto Galimberti tempestivamente partecipò. 2) il finanziamento per il progetto di Piazza Repubblica si deve al Patto per la Lombardia firmato dal presidente del Consiglio Renzi assieme al presidente della Regione Maroni

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