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Presente storico

ARGINE

ENZO R. LAFORGIA - 15/12/2017

antifascismoNel 1986 la rivista «Problemi del socialismo» dedicò il numero 7 al tema Fascismo e antifascismo negli anni della Repubblica. Gli studiosi che intervennero (A. Baldassarre, M. Flores, G. Crainz, L. Canapini, N. Gallerano, M. Isnenghi, F. Petroni, M. Argenteri), già allora proposero di mettere al centro del dibattito storiografico il tema della crisi del paradigma antifascista. E già allora, più di vent’anni fa, una certa stanchezza della tradizione antifascista era messa in relazione con la crisi che iniziava a manifestarsi nel nostro sistema politico e che di lì a poco sarebbe stato spazzato via. Osservava in quella sede il giurista Antonio Baldassarre, che erano «evidenti i segni dell’evoluzione del sistema democratico verso forme di legittimazione in termini di valori non più ripiegate sull’origine storica della nostra democrazia, ma proiettate nel futuro, e più precisamente verso i valori progettuali che la società italiana nel suo complesso […] pone di fronte a sé».

Di lì a poco, il 27 dicembre del 1987 e l’8 gennaio 1988, avrebbero fatto molto discutere due interviste a Renzo De Felice raccolte da Giuliano Ferrara sul «Corriere della Sera», in cui lo storico sosteneva, in estrema sintesi, che era ormai giunto il momento di accantonare definitivamente le categorie fascismo/antifascismo come pure comunismo/anticomunismo, per poter avviare la ridefinizione di una nuova tavola di valori identitaria.

La svolta rappresentata nella nostra storia recente dalle elezioni del 1994, che aprirono le porte del governo del Paese anche ai cosiddetti post-fascisti, stimolò una nuova riflessione su categorie storiografiche e politiche che avevano attraversato indenni la storia repubblicana. Norberto Bobbio, con Destra e sinistra. Ragioni e significati di una distinzione politica, del 1994, ripropose l’attualità di due termini, che, a suo avviso, continuavano a confrontarsi e a distinguersi sulla pratica traduzione dell’idea di «giustizia sociale». Nello stesso anno Furio Colombo e Vittorio Foa si interrogarono su Fascismo e antifascismo, ribadendo la necessità di distinguere le ragioni e le colpe di chi, cinquant’anni prima, aveva sostenuto la parte giusta e quella sbagliata. Con taglio più storiografico, affrontarono la questione in quegli anni Gian Enrico Rusconi, con Resistenza e postfascismo, e Giovanni De Luna e Marco Revelli, con Fascismo Antifascismo. Le idee, le identità. Entrambi i volumi uscirono nel 1995, anno in cui si celebrarono, in un clima politico fortemente mutato in Italia come in tutto il mondo, i cinquant’anni della Liberazione. Soprattutto nel lavoro di De Luna e Revelli si evidenziavano, senza fingimenti e giustificazioni, le ragioni storiche di lungo periodo della più recente crisi dell’antifascismo, che non era mai stato assunto a radice identitaria forte dell’Italia venuta fuori dalla guerra. La stessa esperienza della Resistenza è stata per lungo tempo vissuta e proposta come un patrimonio di parte. E ciò anche a scapito di un più approfondito lavoro di scavo e di ricostruzione storica. Come sosteneva Nicola Gallerano nel 1986, in quel numero già ricordato dei «Problemi del socialismo», «la cultura antifascista sconta lo scarso coraggio intellettuale […] nell’affrontare alcuni luoghi comuni e veri e propri tabù della sua tradizione: dall’immagine ortodossa di un antifascismo unanimistico e appiattito sul terreno patriottico; alla rimozione del lacerante e contraddittorio processo vissuto dalla coscienza collettiva per liberarsi delle sue compromissioni con il fascismo, al problema della violenza […], all’incapacità di superare fino in fondo una lettura degli anni tra le due guerre, ma soprattutto dell’Italia repubblicana, attraverso la griglia riduttiva della contrapposizione tutta politica fascismo/antifascismo».

In questi anni la storiografia ha accettato la sfida di dirimere i nodi irrisolti e evidenziati dalla crisi del paradigma antifascista. Un importante punto di arrivo, in questa nuova stagione di studi, è stato senza dubbio il convegno milanese del 2002 dedicato al tema Antifascismo e identità europea, i cui atti sono poi stati raccolti in volume due anni dopo da Alberto De Bernardi e Paolo Ferri. Come suggerisce il titolo, la categoria dell’antifascismo veniva sottratta ad un tradizionale italocentrismo e riportata in un quadro spazio-temporale più ampio.

In quest’ottica si suggeriva, tra le tante possibili chiavi di lettura, di utilmente impiegare la categoria di guerra civile per ricollocare l’opposizione fascismo/antifascismo all’interno della storia europea della prima metà del Novecento. In questa prospettiva il conflitto fra fascismo e antifascismo veniva proposto quale «matrice storica del processo di democratizzazione in Europa e il passaggio determinante e fondante di quel processo in Italia» (così Simone Neri Serneri in “Guerra civile” e ordine politico. L’antifascismo in Italia e in Europa tra le due guerre).

Come un’unica e lunga guerra civile Enzo Traverso ha riletto la guerra dei Trent’anni del Novecento, quella che ha incendiato l’Europa tra il 1914 ed il 1945 (A ferro e fuoco. La guerra civile europea 1914-1945, 2007). Sappiamo della diffidenza che ha accompagnato l’uso dell’espressione guerra civile. Per molto tempo, il concetto di guerra civile europea è stato associato al lavoro di Ernst Nolte. Il discusso storico tedesco sin dagli anni Sessanta aveva imputato al germe totalitario del comunismo, di cui i crimini nazisti sarebbero, secondo lui, solo una copia, la responsabilità originaria del conflitto europeo. Lo stesso Claudio Pavone, in Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza, del 1991, ricordava la reticenza che i vincitori hanno manifestato nell’usare tale definizione a proposito del conflitto di cui erano stati protagonisti. Nuto Revelli, ad esempio, all’indomani della pubblicazione del volume di Pavone dichiarò in un’intervista tutta la sua contrarietà all’applicazione di una tale categoria all’esperienza della Resistenza. Di ben altro avviso Vittorio Foa, che nel suo Il Cavallo e la Torre. Riflessioni su una vita, del 1991, aveva dichiarato: «L’obiettivo della ricostruzione della identità nazionale perduta conferma la tesi della Resistenza come guerra civile. L’identità italiana non era stata negata solo dall’esterno, era stata avvilita e negata all’interno dal fascismo. Noi dovevamo combattere il fascismo fra di noi, fra gli italiani, e poi anche dentro di noi».

In una prospettiva più ampia, Eric J. Hobsbawm, nel suo Il secolo breve, del 1994, ha utilizzato la categoria di «guerra civile internazionale» per descrivere la lacerazione di un continente devastato dallo scontro di «due diverse famiglie ideologiche»: l’illuminismo, nel cui solco si innesta la rivoluzione russa, e il contro-illuminismo, cioè i fascismi.

La guerra civile, come propone ancora Neri Serneri, «è guerra politica per eccellenza, proprio perché non si nutre di aspirazioni ideali e palingenetiche, non presuppone l’antitesi tra Stato e società civile, tra potere e sudditi, ma perché la posta in gioco è la definizione delle norme e degli istituti della politica: è un conflitto aperto in seno alla società civile per rifondare l’ordinamento costitutivo della comunità politica, per riformulare le regole del gioco – le procedure e gli spazi – dell’azione politica. La guerra civile testimonia la frattura della polis ed è la modalità estrema cui si ricorre per ricomporre – evidentemente su altri presupposti e con altri assetti – quella frattura».

L’antifascismo, allora, rappresentò la matrice comune di gruppi sociali e politici differenti, il cui fine era appunto la ricomposizione di quella frattura.

Tale obiettivo è tangibile anche nei primissimi atti simbolici che accompagnarono la nascita della nostra democrazia.

Il 10 giugno del 1946 la Corte di Cassazione proclamò il risultato definitivo delle elezioni svoltesi il 2 giugno precedente: l’Italia aveva scelto liberamente la forma repubblicana quale orizzonte comune della propria storia futura. In quella stessa occasione erano stati anche eletti i rappresentanti dell’Assemblea costituente, che a quella forma politica avrebbero dovuto dare sostanza e contenuto. La data per comunicare agli Italiani questo storico risultato non fu scelta a caso.

Il 10 giugno del 1924, in un caldo pomeriggio romano, era stato sequestrato sul Lungotevere Arnaldo da Brescia il deputato socialista Giacomo Matteotti. Nel corso della seduta parlamentare del 30 maggio aveva denunciato il clima di violenza che aveva caratterizzato e fortemente condizionato le elezioni del 6 aprile. Il suo corpo fu ritrovato nelle campagne intorno alla Capitale il 16 agosto. Il 3 gennaio del 1925 Mussolini instaurò la sua dittatura, dichiarando alla Camera: «Se tutte le violenze sono il risultato di un determinato clima storico politico e morale io l’ho creato con una propaganda che va dall’intervento ad oggi».

Il 10 giugno del 1940 fu annunciata, nel corso dell’ultima adunata «oceanica» del fascismo, l’entrata in guerra dell’Italia al fianco della Germania hitleriana. Tra tutte le scelte sciagurate di Mussolini, questa fu senza dubbio la peggiore. Non fu una guerra «parallela», come dichiarava la propaganda, ma «subalterna», come scrivono oggi gli storici. La parola che doveva trasvolare «dalle Alpi all’Oceano indiano» non fu «vincere». Fu una serie ininterrotta di sconfitte, frutto dell’ambizione e dell’incapacità politica di chi quella guerra l’aveva voluta ad ogni costo.

Il 10 giugno del 1946 segnò dunque una svolta nel calendario lugubre dell’Italia listata a nero. Il nuovo calendario ripartiva dalla libera espressione della volontà popolare. L’esperienza di ciò che era ormai definitivamente alle spalle avrebbe dovuto guidare l’azione dei Costituenti. Ci piace ricordare le parole pronunciate da uno dei rappresentanti dell’Assemblea costituente, direttamente impegnato nella stesura del testo costituzionale. Aveva appena trentun’anni e nella seduta del 13 marzo del 1947 così si espresse: «Non possiamo […] fare una Costituzione afascista, cioè non possiamo prescindere da quello che è stato nel nostro Paese un movimento storico di importanza grandissima il quale nella sua negatività ha travolto per anni le coscienze e le istituzioni. Non possiamo dimenticare quello che è stato, perché questa Costituzione oggi emerge da quella resistenza, da quella lotta, da quella negazione, per le quali ci siamo trovati insieme sul fronte della resistenza e della guerra rivoluzionaria ed ora ci troviamo insieme per questo impegno di affermazione dei valori supremi della dignità umana e della vita sociale». Il giovane costituente che pronunciò queste parole si chiamava Aldo Moro.

L’antifascismo era in effetti il terreno comune in cui tutti i costituenti si riconoscevano, al di là delle profonde differenze politiche e culturali, al di là delle visioni del mondo antagoniste che ciascuno coltivava. Ma può una idea negativa, l’antifascismo appunto, rappresentare una radice identitaria? Può un concetto contrastivo avere un valore positivo ed essere assunto quale matrice culturale comune? Noi, nel solco di quanto scriveva Bobbio nel 1976 (Origine e caratteri della Costituzione), pensiamo di sì. L’antifascismo, affermava il filosofo torinese, non è soltanto un’idea negativa, ma positiva: «Questa idea comune era la democrazia intesa come un insieme di principi, di regole, di istituti, che permettono la più ampia partecipazione dei cittadini alla cosa pubblica e quindi il più ampio controllo dei poteri dello Stato. Se di un’ideologia della resistenza si può parlare, questa ideologia era stata la democrazia, nella più ampia accezione del termine, in quanto antidemocratico, nel senso più ampio della parola, era stato il fascismo».

In una stagione politica come quella che stiamo vivendo, ci sembra questa un’ottima ragione per riproporre l’antifascismo quale argine ad ogni tentazione autoritaria o che semplicemente stravolga l’idea stessa di partecipazione democratica alla vita dello Stato.

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