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Il Mohicano

VARESINO PER CASO

ROCCO CORDI' - 28/09/2018

La “freccia del Sud” negli anni ‘60

La “freccia del Sud” negli anni ‘60

Luglio 1968: “Varese. Stazione di Varese. Termine corsa”. Affacciato al finestrino del treno ascolto la voce diffusa dall’altoparlante con grande emozione. E sì, perché per me non è solo la fine di un viaggio lunghissimo e non certo comodo, ma l’inizio di una nuova vita.

Ero partito il giorno prima dal mio paese natio (Grotteria, provincia di Reggio Calabria), distante otre 1.300 km, con l’ansia e l’incertezza di un diciottenne costretto a emigrare verso terre lontane e sconosciute.

Prima di me, fin dal dopoguerra, migliaia di giovanissimi e adulti avevano abbandonato il paese “in cerca di fortuna”, così di diceva. Per molti di loro la destinazione era talmente lontana (Australia, Canada, Usa, America latina) da rendere persino inimmaginabile o impraticabile il ritorno, almeno per abbracciare i propri cari rimasti. Per alcuni è rimasto solo un desiderio, altri hanno potuto realizzarlo solo qualche decennio dopo.

Un flusso altrettanto consistente era formato da coloro la cui meta era il nord Europa, mentre la maggioranza aveva trovato lavoro nei cantieri e nelle fabbriche che, da Torino a Novara, da Milano a Varese, da Como a Brescia, e altri luoghi che rappresentavano il motore dello sviluppo nazionale.

Per mare o per terra intere generazioni di “grotteresi” si erano disperse per ogni angolo del mondo. La mia meta era diventata Varese. Casualmente. Per il semplice fatto che mio padre dopo tanto peregrinare solitario per cantieri in Lombardia qui aveva trovato un lavoro più dignitoso e stabile che, finalmente, gli consentiva di realizzare il sogno, rincorso a lungo, di avere con se tutta la famiglia.

Il mio “ricongiungimento” è avvenuto per ultimo in quanto mi mancavano due anni al completamento degli studi superiori. Ottenuto il diploma sono partito in treno per Varese. Il viaggio sulla “Freccia del Sud”, detto anche treno della speranza, era anche la prima prova disagiata degli emigranti non solo per il tempo impiegato (circa 20 ore), ma per le stesse condizioni del viaggio. Basti pensare che la cosiddetta “Freccia” al massimo “sfrecciava” a 70 km orari. Un tempo ragionevole se rapportato alle due o tre settimane impiegate da chi a bordo dei “bastimenti” affrontavano (in terza classe) la sfida della traversata atlantica. In un caso e nell’altro si viaggiava a “pieno carico” e in condizioni precarie, ammassati negli scompartimenti, nei corridoi e persino nelle toilette. Alla fine degli anni sessanta si emigrava così. Prima anche peggio.

Nella mia valigia di cartone oltre a pochi vestiti c’era il tanto ambito diploma di scuola superiore. Grazie a quel titolo di studio e alla fiducia del commendator Ciatti, proprietario e direttore della scuola privata “A. Volta” di Via XXV Aprile, già ai primi di ottobre cominciavo la mia attività lavorativa insegnando materie tecniche ai ragazzi che frequentavano i “corsi di apprendistato” e, nelle ore serali, i corsi per il conseguimento della “licenza media”. Qualche anno dopo la “carriera” scolastica ed anche la mia frequenza universitaria venne interrotta dalla mia decisione di accettare l’invito a impegnarmi a tempo pieno nella organizzazione del PCI. Una scelta decisiva che mi avrebbe consentito di esplorare Varese in profondità, a partire dalla conoscenza delle condizioni di vita e di lavoro dei suoi abitanti, dalla varietà e vastità della sua struttura produttiva, dalla complessità delle sue dinamiche sociali.  Una scelta che ha segnato la mia formazione e l’intera mia esistenza e di cui non sono per nulla pentito.

A Varese ci vivo ormai da cinquant’anni e sono felice della grande opportunità offertami dal caso. Qui ho potuto realizzare il mio sogno di una vita intensa e serena. Qui ho conosciuto mia moglie, varesina doc. Qui sono nati i mie figli e miei nipoti. Sono un varesino di adozione, ma mi sento tale pienamente perché penso di aver vissuto e amato questa città come la maggior parte dei suoi figli.

Anche se anagraficamente il mio cambio di residenza porta la data del 17 ottobre 1968 (prima abitazione in Via de Cristoforis, 23) il mio arrivo risale al mese di luglio. Di quella giornata nitida in cui il mio viaggio volgeva al termine ricordo, come fosse ora, il primo impatto con Varese. Poco prima di arrivare in stazione, affacciato al finestrino del treno, il mio sguardo venne catturato dall’incantevole panorama che abbraccia il lago di Varese e la catena delle Alpi. Una visione di una bellezza straordinaria in grado di attenuare le angosce e le preoccupazioni dell’avventura appena iniziata e che, quasi fin da subito, avrebbero  lasciato il posto alla fiducia in una vita migliore.

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