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Storia

IN FUGA DA GALLARATE ALL’ARGENTINA

FRANCO GIANNANTONI - 17/03/2012

Caccia grossa per il Comando Generale del Corpo Volontari della Libertà dal Quartier Generale di Palazzo Brera di Milano nelle ore burrascose dell’insurrezione. Catturato Mussolini e il suo codazzo di ministri in fuga verso la Svizzera (il solo a lasciare la pericolosa compagnia era stato l’ex Capo della Provincia di Varese e di Milano Mario Bassi intercettato comunque dai partigiani della 148a brigata Matteotti mentre in bicicletta stava raggiungendo la villa di amici ad Oronco), occorreva mettere le mani sulla miriade di gerarchi, grossi e piccoli, che come topi avevano guadagnato l’hinterland milanese e la zona di frontiera nel tentativo di porsi in salvo. Occorreva fare presto, stringere i tempi.

Uno dei “pezzi da 90”, l’ultimo segretario del Partito Nazionale Fascista, Carlo Scorza, quarantotto anni, di origini calabresi, animatore del primo fascismo nella Lucchesia, il bastonatore della squadraccia che mandò a morte nel 1925 Giovanni Amendola, sodale del ras di Cremona Farinacci, a cui si deve il celebre motto “Libro e moschetto fascista perfetto”, che votò a favore dell’ordine del giorno Grandi che il 25 luglio aveva determinato l’arresto del duce da parte del re e la provvisoria fine del regime, per poi rimangiarsi il gesto scrivendo una lunga lettera a Mussolini nel tentativo di riguadagnare le posizioni perdute, era nascosto da mesi all’Istituto Angelicum di Gallarate, il tempio dei gesuiti, sotto le mentite spoglie del “dottor Giuseppe Maggio”, professione bibliotecario.

Solo una mente diabolica aveva potuto partorire quell’inganno. Un posto tranquillo dove Scorza si era messo al riparo, una volta uscito assolto nella primavera del ’44 dal processo del Tribunale Speciale della Difesa dello Stato di Parma che lo aveva perseguito per il suo ondivago comportamento nei giorni fatali del regime. Temendo comunque una vendetta postuma da parte dei camerati di Salò (a cui non aveva aderito) e soprattutto dei tedeschi adirati contro quel campione di “doppiogiochismo”, si era rivolto ai gesuiti del Collegio Universitario di Padova dove padre Messori, vecchio amico, preso atto del pericolo che Scorza correva, gli aveva proposto di rifugiarsi a Gallarate.

Scorza non si era fatto pregare due volte accettando la proposta, una delle tante che in quel tempo il mondo religioso aveva fatto anche ad altri gerarchi in difficoltà.

All’Aloisianum Scorza alias dottor Maggio aveva trascorso giorni sereni sino alla Liberazione. Nessuno, se non gli amici più stretti, erano al corrente come dietro quell’omino, colorito chiaro, gli occhi cerulei vagamente sbarrati, si celasse il feroce picchiatore squadrista del fascismo anni venti, il gerarca che passo dopo passo aveva raggiunto il vertice del partito, per poi assumerne nella fase finale, a partire dal 17 aprile 1943, la segreteria nazionale. Il “dottor Maggio” riceveva riviste e libri, li ordinava, li catalogava, li consegnava per la consultazione ai tanti gesuiti che nei seicento giorni di Salò, avevano frequentato il massimo tempio della cultura dell’ordine.

Passata la festa del 25 aprile, qualche voce era cominciata a circolare. Il CLN di Gallarate con Pasta e Sola, fra i maggiori esponenti con buone conoscenze nel circuito della Chiesa locale, avevano avuto sentore che Maggio fosse Scorza e l’avevano segnalato prontamente a Milano. Catturarlo non sembrava una impresa facile, i gesuiti in qualche modo si sentivano legati al patto che aveva permesso al gerarca di essere ospitato. Bisognava muoversi con tatto, senza compiere errori.

E così il Comitato insurrezionale (Pertini, Longo, Valiani, Sereni) puntò su Giovanni Pesce “Visone”, l’uomo più esperto dal punto di vista militare, un partigiano di prima grandezza (sarà medaglia d’oro al Valor Militare della Resistenza), ex comandante del III° GAP “Egisto Rubini” e prima del GAP di Torino, protagonista di memorabili imprese. A lui il compito di sorprendere il “dottor Maggio” e assicurarlo alla giustizia. Giovanni Pesce che probabilmente per questa missione, fu escluso da quella più prestigiosa di Dongo (sul lago di Como andarono Walter Audisio “il colonnello Valerio” e Aldo Lampredi “Guido”), studiò le carte, valutò il personaggio, contattò i partigiani locali. Dotato di una freddezza e di un coraggio straordinari maturati sin dalla guerra di Spagna, si presentò a Gallarate certo di non mancare il bersaglio. Infatti dopo una serie di appostamenti Scorza fu fatto prigioniero. Il gerarca smascherato non aveva opposto resistenza, lasciandosi tranquillamente ammanettare. Ma l’azione iniziata bene si era conclusa nel peggiore dei modi. Scorza era riuscito a fuggire.

Mi aveva confidato Giovanni Pesce qualche anno fa mentre raccoglievo le sue memorie per il libro che con il collega Ibio Paolucci scrissi sulla sua vita dal titolo, credo efficace, certo storiograficamente puntuale, “Giovanni Pesce “Visone” un comunista che ha fatto l’Italia”: “Dopo che arrestai Scorza, entrarono in azione, senza che me ne accorgessi, delle forze molto vicine agli Alleati e agli stessi fascisti, che lo aiutarono a fuggire. La responsabilità fu in parte anche mia perché non avrei dovuto perdere troppo tempo nelle manovre dilatorie messe in atto dai miei presunti collaboratori e fucilare Scorza sul posto come mi era stato ordinato dai superiori. Scorza era un fuggiasco, dopo che il Tribunale Speciale lo aveva assolto dall’accusa di tradimento, una sentenza che non era stata accettata dai gerarchi della RSI né dai tedeschi che per la sua compromettente posizione ne avevano chiesto la testa”.

Nel momento in cui Scorza porse le mani per essere ammanettato, accadde qualcosa che era sfuggito allo stesso Pesce. “Fu in quel momento – mi aveva raccontato il capo partigiano – quel momento mi aveva lasciato fare, intervenne, suggerendomi di ricoverare il prigioniero in una base locale, un appartamento se non ricordo male alla periferia di Gallarate, prima di procedere. Aderii senza pensare che fosse una mossa per sottrarre Scorza al suo destino. Quando tornai un paio d’ore dopo per prenderlo in consegna, del gerarca non c’era più traccia. Venni a sapere qualche tempo dopo che era stato rilasciato dal Comando di polizia di Milano in seguito all’intervento di esponenti della Democrazia Cristiana su pressione dei gesuiti che, con i fascisti, ne avevano favorito la fuga”.

Si era aperto un altro capitolo della storia italiana in cui forze reazionarie legate al grande capitale si erano impegnate a salvare i grandi criminali neri. Basti andare con la memoria al caso più clamoroso, quello di Junio Valerio Borghese, il capo della famigerata Decima Mas, utilizzato dagli Alleati e dai servizi informativi OSS nel tentativo separatista siciliano.

Scorza, dopo qualche mese trascorso al sicuro in Italia, partì per l’Argentina dove ritrovò camerati di ogni specie dandosi ad una proficuo mestiere di agente finanziario. Passata la bufera, negli anni ’70 si rifece vivo ai confini patri godendo di una buona pensione nel Bel Paese dalla memoria corta (e poi ci chiediamo perché siamo conciati così).

Scorza è morto nel 1988. Aveva 91 anni.

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