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Economia

BANCHE IMPOPOLARI

GIANFRANCO FABI - 19/10/2018

La sede di Sondrio del Credito Valtellinese

La sede di Sondrio del Credito Valtellinese

Solo pochi mesi fa ha festeggiato, senza troppo clamore, quasi in silenzio, i suoi primi 110 anni. È stato infatti fondata a Sondrio nel luglio del 1908 con il nome di Banca Piccolo credito valtellinese, una delle tante banche popolari che nel secolo scorso hanno costituito l’anima di un’economia basata sui valori della partecipazione e del territorio. E infatti lo statuto diceva esplicitamente: “La Società ha per scopo la raccolta del risparmio e l’esercizio del credito, tanto nei confronti dei propri Soci che dei non Soci, e si ispira ai principi della mutualità; essa si propone altresì di sostenere e promuovere lo sviluppo di tutte le attività produttive con particolare riguardo a quelle minori e alle imprese cooperative e di favorire, in conformità alle intenzioni dei suoi fondatori e alla sua tradizionale ispirazione cristiana, le istituzioni tendenti a migliorare le condizioni morali, intellettuali ed economiche delle classi meno abbienti, anche con attività benefiche”.

Una banca che passo dopo passo è diventata una delle maggiori banche italiane anche grazie ad una politica di acquisizioni tra cui quella del Credito Artigiano con forti radici in Lombardia. Ma è sempre rimasta una banca popolare, contraddistinta dal voto capitario (ogni azionista ha un voto in assemblea quale sia il numero di azioni che possiede), dalla partecipazione dei soci (alle assemblee partecipavano più di 5mila persone), da una costante attenzione alle piccole e medie imprese del territorio.

Quella banca non esiste più.

“Grazie” ad un decreto varato in tutta fretta dal governo Renzi nel gennaio del 2015 le dieci maggiori banche popolari hanno dovuto trasformarsi in società per azioni. La fretta e l’urgenza in effetti era giustificata, dicono i più maliziosi, dalla possibilità di approfittare della presidenza provvisoria della Repubblica affidata al presidente del Senato, Piero Grasso, dopo le dimissioni di Napolitano. Grasso, che non nascondeva le sue ambizioni presidenziali, firmò infatti rapidamente il decreto per non scontentare, dicono sempre i maliziosi, l’allora partito di maggioranza.

Il risultato è stato che il decreto è passato anche a un sommario esame del Parlamento e le grandi banche popolari hanno dovuto obbligatoriamente diventare società per azioni. Il Credito Valtellinese, che negli anni ’90 del secolo scorso aveva abbandonato la simpatica definizione di “piccolo”, ha così dovuto abbandonare anche la sua natura cooperativa e diventare una delle tante società a fine di lucro. Ma non solo. Senza più la difesa del voto capitario, come tutte le altre grandi banche popolari, è stato facilmente conquistato da fondi di investimento o da finanzieri che ben poco avevano a che fare con la storia dell’istituto, ma che fiutando l’aria avevano accumulato quote significative di azioni.

Il Credito Valtellinese ha ora come principali fondi istituzionali e hedge funds (fondi speculativi) mentre ai piccoli azionisti resta solo il 10% del capitale. Il singolo maggiore azionista è un hedge fund di New York, Steadfast Capital con l’8,5% del capitale. Gli altri principali azionisti: Algebris di David Serra (5,28%), Hosking Partners (5%), Crédit Agricole (5%), DGFD dell’imprenditore francese (residente in Svizzera) Denis Dumont specializzato nella grande distribuzione con il marchio Grand Frais. È stato quest’ultimo ad aggregare una nuova maggioranza nell’assemblea che si è tenuta il 12 ottobre a Milano, la prima assemblea fuori dalla Valtellina e con una partecipazione di poche decine di persone: anche questo è significativo.

In questo caso, così come per le altre ormai ex-popolari, si può che la grande finanza ha conquistato a mani basse una parte importante del sistema creditizio italiano.

Forse, e sottolineo forse, nella perdita di consensi per il partito di Renzi qualche ruolo lo ha avuto anche l’operazione banche popolari, banche che tre anni fa contavano nel loro complesso un milione di soci che non hanno certo gradito la trasformazione d’imperio delle loro azioni e l’oscuramento del valore della cooperazione. Un valore difeso, a parole, dalla Costituzione.

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