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Il Viaggio

UN ANNO NIGERIANO

CARLO BOTTI - 21/12/2018

 

Gennaio 2018. Sono su una jeep. Davanti a me vedo un grosso adesivo con un Kalashnikov, un bel cerchio che lo circonda e una sbarra rossa che lo attraversa. Di fianco sta seduto un ragazzo che guida come se fosse su una monoposto, praticamente disteso.

Abbiamo appena lasciato Maiduguri, nel nordest della Nigeria, e ci stiamo dirigendo verso Damaturu dove sarò di base per questi primi mesi. È la prima volta che mi trovo a lavorare in una missione umanitaria in un contesto di emergenza.

Sono arrivato da poco, qualche giorno a Abuja, la capitale, dove ho ricevuto un po’ di istruzioni sulla situazione e sulla sicurezza. E poi via subito in volo, su un aereo da trenta posti delle Nazioni unite, verso la zona di “risposta all’emergenza”, sul campo.

Bene, ora sono qua sulla jeep. Seguendo le indicazioni datemi, ho mandato il messaggino al coordinatore logista per avvisarlo che abbiamo lasciato la città. Tra un’ora gliene manderò un altro per avvisarlo a che punto siamo della strada. Ho il mio tesserino di identificazione appeso al collo. Tutto in ordine.

Arriviamo al primo check-point di controllo da parte dei militari. Tolgo gli occhiali da sole, saluto cordialmente. Buongiorno, buongiorno. Chiedono la patente all’autista. Fa finta di toccarsi le tasche dei pantaloni, si gira, mi guarda e mi dice: non ce l’ho. Il militare si innervosisce subito: come non hai la patente, dobbiamo requisire il veicolo adesso, scendi dalla macchina.

Ecco. Una delle primissime regole da seguire per i movimenti tra base e base è: mai abbandonare la macchina se un militare ti dice di scendere. Cominciamo bene.

Dicembre 2018. È passato un anno. Un anno nigeriano. Sono successe molte cose. Ho cambiato tre basi: Damaturu, Potiskum e Maiduguri, dove mi trovo ora. Ho cambiato tre progetti con tre ruoli diversi. Ho conosciuto e lavorato con tante persone, locali e di altre nazionalità. Ci sono stati tantissimi eventi: partenze, nuovi arrivi, risate, spaventi, pianti, incazzature, soddisfazioni, insulti, complimenti, paure, paranoie, desideri, ansie, incidenti, coprifuochi, applausi, torte di compleanno, scintille, feste, bagni in piscine improvvisate, nottate insonni.

È stato un anno molto diverso dai precedenti caratterizzati da questa scelta umana e professionale che ho intrapreso. Per la prima volta mi sono messo alla prova con una missione umanitaria in un ambiente di grande instabilità e che richiede un impegno particolare, pazienza, flessibilità, capacità di adattamento a situazioni che cambiano da un giorno all’altro, dedizione e concentrazione. Una missione in cui, per differenti ragioni, il contatto con i beneficiari è stato ridotto di molto rispetto alle mie precedenti esperienze, ma in cui l’impatto che si raggiunge con i progetti, in termini quantitativi, è maggiore. Qui le esigenze sono urgenti.

Per la prima volta ho dovuto seguire misure di sicurezza con coprifuoco e restrizioni di movimenti sul campo. Abbiamo vissuto in una base in cui eravamo l’unica ong internazionale presente con personale espatriato, di conseguenza le giornate erano scandite dai movimenti guesthouse-ufficio, ufficio-guesthouse, stando sempre tra di noi, senza mai uno svago esterno. Libertà di movimento ridotte al minimo e senza mai la possibilità di staccare davvero.

In una situazione di questo genere la componente psicologica è molto forte, tutto si basa sull’equilibrio interiore che ognuno crea dentro di sé e sull’equilibrio che si crea con i colleghi, i quali nello stesso tempo sono i tuoi conviventi e diventano, in pratica, la tua famiglia. È stata dura, un Grande Fratello non televisivo, e spesso ci si è sentiti soli, molto più soli di quanto già questo lavoro comporta con cambi di contesti, di persone, e di paesi.

La maggior parte del mio tempo l’ho spesa davanti al pc, scrivendo proposte di nuovi progetti, report di progetti in corso, mettendo a posto budget, scrivendo mail, correggendo e analizzando report di monitoraggio e andamento, altrimenti in riunioni con donors, discutendo dei progetti, dei report, dei budget, di possibilità e di come poter rispondere in maniera più efficiente alla crisi.

A stare dietro a tutta la burocrazia si perde un po’ il contatto con quelli che sono davvero i beneficiari finali dei progetti. A volte si perde anche un po’ la motivazione. Ma sono momenti. Quando ci si ritrova a lavorare senza sosta, quando gli occhi bruciano, quando ci si sente stanchi, e con un po’ di febbriciattola (sarà malaria?), quando ci manca la famiglia e gli amici e alcune comodità, ci ricordiamo perché siamo qua.

Attorno al bacino del lago Ciad si sta consumando da anni una delle più gravi crisi umanitarie del mondo. I paesi coinvolti sono la Nigeria, il Niger, il Ciad e il Camerun. Le popolazioni sono vittime di una devastante crisi ambientale, la superficie del lago negli ultimi quarant’anni si è ridotta quasi del 90%, e poi gli attacchi del gruppo terroristico jihadista Boko Haram.

Quasi otto milioni di persone sono in bisogno di assistenza umanitaria, tra loro due milioni e mezzo di bambini sotto i cinque anni sono colpiti da denutrizione acuta severa. Quasi due milioni di persone tra sfollati e rifugiati hanno cercato protezione nell’area e sono stati accolti per lo più dalle comunità locali, anche loro tra le più povere al mondo.

Per rispondere all’emergenza, cercando di assistere almeno sei milioni di persone tra le più vulnerabili negli stati del Nordest nigeriano, le Nazioni unite e i partner hanno richiesto circa un miliardo di dollari per 176 progetti che verranno implementati da 60 organizzazioni umanitarie. La ong COOPI di Milano, è una delle organizzazioni italiane impegnate in questa emergenza, l’altra è INTERSOS, di Roma.

Dal 2014 COOPI si trova sul territorio per rispondere alla crisi. Ha portato avanti diversi progetti di sicurezza alimentare (distribuzioni di cibo), di nutrizione (per affrontare la denutrizione dei bambini sotto i cinque anni e migliorare le pratiche di allattamento e alimentazione complementare), di protezione infantile (per affrontare i traumi legati alla separazione dai genitori e alla distruzione delle famiglie dovute alla crisi e ai conflitti), e di mezzi di sostentamento per promuovere l’autonomia e la resilienza delle persone in fase di recupero.

La condizione di sicurezza è sempre molto instabile. Nel febbraio del 2019 ci saranno le nuove elezioni presidenziali e il panorama che si prospetta in Nigeria è ancora molto oscuro. C’è il presidente di lunga data che cerca di farsi rieleggere, Muhammadu Buhari, e nuovi personaggi di cui si sa poco.

Boko Haram (diviso in due fazioni) continua a imperversare nel Nordest e a destabilizzare il territorio. Gli attacchi contro le forze armate e la popolazione locale sono continui e in aumento. A settembre e a ottobre due operatrici umanitarie, ostetriche, del Comitato Internazionale della Croce Rossa sono state uccise dai loro rapitori in una città al confine con il Camerun. Un’ infermiera di UNICEF è ancora nelle mani dei gruppi armati.

Questo attacco diretto alla comunità umanitaria ha violato i principi della risposta e ostacolerà l’assistenza alla popolazioni vulnerabili in condizioni di estrema necessità.

Le uccisioni sono state condannate duramente dal governo nigeriano, dalle Nazioni unite, dagli stati membri, dalla comunità internazionale e dalle ong. Le Nazioni unite si sono appellate alle parti coinvolte nel conflitto in modo da facilitare l’accesso degli operatori umanitari. Ma la situazione rimane molto critica e imprevedibile.

Un anno nigeriano. Un anno intenso. Un anno in più di storia e di vita di questa crisi del lago Ciad.

La speranza – anche da un punto di vista politico – è che davvero le nuove elezioni siano una spinta verso il miglioramento, verso la stabilità e la ricostruzione.

Ma c’è il pericolo di un passo indietro. I fondi dell’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo (Ministero Affari Esteri), intanto, sono stati tolti alla Nigeria, nonostante l’attuale nostro governo persegua a parole una politica comunemente denominata “aiutiamoli a casa loro”. E in Italia, nel frattempo, cercano di sopravvivere migliaia di nigeriani che si ostinano a richiedere protezione umanitaria.

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