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Stili di Vita

FAME DI CHE

VALERIO CRUGNOLA - 18/01/2019

peopleDel “popolo” son piene le bocche. È strano: il “popolo”, come il “progresso”, è una categoria priva di significato politico, ermeneutico e descrittivo. L’unico senso definibile e non ideologico lo addita la Costituzione là dove menziona il “popolo” come insieme, in sé plurale e molteplice, dei cittadini che esercitano la sovranità mediante il voto, nelle forme e nei limiti fissati dalla Costituzione stessa.

Si è sempre abusato di questo vago concetto a fini di legittimazione ideologica. Il popolo fu invocato dai moderni a vario titolo: un organismo vivente; il corpo della nazione; il collante delle classi lavoratrici; i poveri; la gente ordinaria, semplice e pura rispetto alla politica organizzata e filtrata attraverso le istituzioni e i corpi intermedi. Queste narrazioni davano per scontata la possibilità di definire la nazione, il lavoro, la povertà o la gente come totalità così omogenee da superare ogni divisione e particolarismo. Al tramonto delle narrazioni dei moderni entrarono in scena gli interpreti del “popolo”, opposti alle rappresentanze partitiche. Berlusconi ad esempio si inventò un polo per gli elettori attenti alle libertà e liberi da ideologie, opposti a chi ancora cedeva a inguaribili pulsioni autoritarie. Sempre in Italia oggi il “popolo” è invocato da due estreme destre tra loro alleate, M5S e Lega, e dagli ultimi superstiti di una sinistra che fu.

Soprattutto i totalitarismi cercarono di amalgamare le succitate narrazioni. Ora esse vengono piegate a nuove mescolanze, talora potenzialmente autoritarie. Ne sono scaturite affabulazioni senza fascino. Ma anche una farina scadente, presa in saldo un tanto al quintale in un mercatino di granaglie, regala enormi plusvalenze elettorali a chi la sfrutta nel vasto mercato della propaganda permanente. Il confezionamento retorico trasforma la farina scadente in dolcificate brioches. Soddisfatto e grato alla Maria Antonietta di turno, il “popolo” placa la fame e si disassuefà al pane buono.

I fornai del populismo hanno sempre ricorso allo schema dualistico “noi/loro”, “molti/pochi”. La variante odierna dominante oppone una maggioranza compatta a un’esigua minoranza estranea che la inganna, ne strappa il consenso e si arroga di rappresentarla: il “popolo” di contro alle élites, l’”uno” di contro ai particolarismi; i “tutti” di contro alla casta; gli “onesti”, puri e disinteressati, di contro ai poteri forti avidi, insaziabili e corrotti capeggiati da moderni Satana come Soros e Benetton. Anche la democrazia è descritta dualisticamente. La democrazia del popolo è guidata da leader carismatici al di sopra delle parti, che entro appositi contenitori elettronici danno voce al popolo e che, in nome della sua totalità, sanno decidere senza mediazioni. La democrazia istituzionale si fonda all’opposto sulla rappresentanza indiretta, su continue mediazioni e complessi passaggi deliberativi e inutili rituali discorsivi. Il popolo nella sua semplicità è portatore di una verità e di una sanità morale che non necessita di mediazioni rappresentative e che sfugge alla sofisticata raffinatezza degli intellettuali e dei tecnocrati, tutori di competenze artificiose, mistificatrici e autoreferenziali.

Le competenze peculiari della politica sono respinte a priori. La capacità di capire e praticare la politica entro un corpus complesso di cognizioni ed esperienze (che possono incorporare la capacità di svolgere bene una qualunque professione ma non derivarne), viene spregiata. Si scardina così il principio che ha costituito – se non altro come tensione prospettica – uno dei nuclei costitutivi della democrazia rappresentativa moderna: il ruolo di direzione intellettuale e morale affidata a élites testate, vagliate, selezionate e capaci di sostituirne altre ogniqualvolta la burocratizzazione statuale e partitica avesse preso il sopravvento.

Le élites non sono propriamente popolari. I populisti ricorrono a una visione caricaturale e antistorica, che equipara le élites a veri o presunti “poteri forti” e ad altri concetti vaghi e inafferrabili. In questa rozza descrizione le élites sono lontane dalla “gente”, arroccate in difesa dei propri privilegi e poteri, pronte a non mollare l’osso conquistato non per meriti ma con intrallazzi affaristici, con un’intraprendenza al limite del lecito esercitata sotto l’ombrello protettivo della “casta” dei politici, in un perverso intreccio di interessi. L’antitesi tra élites e popolo, tra false e vere rappresentanze, porta la democrazia a precipitare in un livellamento drammatico, che attua la peggiore delle uguaglianze possibili: uomini senza qualità pretendono di essere rappresentati da politici senza qualità, in tutto e per tutto identici e speculari a loro, e viceversa. Spesso il politico senza qualità che assurge a rappresentante del popolo senza qualità è poco più di un arrivista senza scrupoli, di un parvenu senz’arte né parte, di un avventuriero ruspante.

Ma la scienza della politica non indica con élite i titolari di privilegi, le minoranze potenti, gli strati sociali separati dall’uomo comune che premono sulle decisioni dei governi direttamente o mediante dei portavoce di fiducia. Anzi, senza élites il cosiddetto “popolo” diviene un ammasso informe: si priva di quelle “stecche del busto” di cui parlò Gramsci; non è più in grado di elaborare quell’etica pubblica ispirata alla libertà di cui scrisse Croce; manca di un nucleo esteso e irraggiante di intellettuali che concorrono ai fini comuni grazie al senso delle istituzioni e dei propri compiti storici, capaci di interpretare i problemi e di affrontarli con visioni di medio e lungo periodo; e manca di una classe dirigente forgiata da un rigoroso sistema formativo che, almeno in via ipotetica, offre opportunità a tutti ma seleziona i migliori in base al merito e ottimizza le risorse.

Senza più élites, l’Italia paradossalmente non ha più un popolo anche se tutti ne parlano. E la ragione è semplice. A differenza di altri paesi, le élites in Italia non hanno mai sedimentato una tradizione consolidata: l’eredità del Risorgimento fu dissipata dal trasformismo; quella del riformismo di fine ‘800 dai compromessi del giolittismo; quella dei meridionalisti dalla piaga del clientelismo; quella liberaldemocratica e socialista di Gobetti, Salvemini, Rosselli e Amendola dal trionfo del fascismo; quella dell’opera dei costituenti dal bipolarismo imperfetto; quella dei protagonisti del boom economico con l’insuccesso della stagione riformatrice tentata nel decennio ’60-’70. Nel volgere di un quarantennio circa queste eredità – anziché consolidarsi – si sono lentamente dissipate. L’Italia non ha più alcuna élite, neppure di basso profilo o indegna del nome.

Ho sperato che il berlusconismo, Bossi e il renzismo fossero il punto di caduta più basso; invece le scavatrici sono sempre in azione. Un continuo scivolamento livellatore che oggi disvela pienamente i suoi effetti, ci ha portato agli abissi della presunta Terza Repubblica: il Governo del Popolo presieduto dall’Avvocato del Popolo che attua la Manovra del Popolo e altre amenità.

Non è un problema solo italiano, ma un fenomeno globale. La decadenza pressoché generale delle élites nazionali e sovranazionali, accompagnata all’estinzione del ruolo degli intellettuali e alla fine reciproca dell’informazione di qualità e dei suoi fruitori, si associa a una teatralizzazione e spettacolarizzazione della politica: quella che Emilio Gentile chiama “democrazia recitativa”. Si tratta di un fenomeno strutturale che sappiamo descrivere ma non contenere e contrastare con risposte originali. Il passato ci aiuta assai poco.

La sola esperienza che abbiamo alle spalle non è paragonabile all’oggi. Il passaggio dalla civiltà liberale alla democrazia di massa ebbe grandi meriti, ma fu in prima istanza foriero di terribili tempeste, che si placarono solo allorché l’Europa occidentale trovò un punto di equilibrio grazie la riscossa civile seguita al suo trentennio più tragico tra le due guerre. Non così gli Stati Uniti, che non ebbero mai un sistema equitario decente, o quanto meno comparabile con quello europeo, se non nel senso – spesso falsificatorio e mitologico – dell’ascensore sociale sempre disponibile al piano.

Sappiamo poche cose. Il sovranismo e il nazionalismo sono brutte bestie che hanno moltiplicato i conflitti senza alcun esito. L’assenza di equità sociale e di poteri di controllo sui processi decisionali di cui dispongono i potentati economici e finanziari ci porta sull’orlo del baratro. L’Europa, benché sia oggi piuttosto malridotta, è la sola via d’uscita che abbiamo.

La democrazia liberale versa in grandi difficoltà nel mentre incombe un’irreversibile catastrofe ambientale. La sintesi tra liberalismo, democrazia e equità viene corrosa. Dobbiamo rinunciarvi o cercare un modo per riformularla al di fuori di categorie populiste o ricorrendo ai vecchi schemi che nelle sinistre e nel centro sembrano non tramontare mai benché siano in decomposizione da decenni? Come ho scritto altre volte, abbiamo cessato di interpretare il mondo e non siamo in grado di cambiarlo. A cambiarlo, in peggio, ci stanno provando altri.

Sistemi difensivi e anticorpi non bastano. Lo sciacquone attende le idee vecchie. Cosa dobbiamo costruire? Penso si debba ripartire dalle élites, da un lavoro di intelligenza collettiva, finalmente postideologica e sovranazionale. Avendo la cautela di chi sa la fragilità della cristalleria quando di mezzo c’è l’elefante. E sapendo che il fattore tempo ci è ostile.

Per tutti c’è una scelta. Prima di urlare e affidarvi alle viscere, pensateci bene. Chi preferisce Masaniello a Giambattista Vico strepiti pure. Chi preferisce Vico si aggreghi, studi, discuta. Chi vuole un camionista all’Eliseo si doti di un gilet giallo, di un elmo e di una ruspa. Chi non lo vuole si aggreghi, studi, discuta. Attiviamo fin dove possiamo, a partire dall’alto, dei circoli virtuosi di pensiero e di divulgazione.

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