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Spettacoli

PRIMA C’ERA INGRAVALLO

BARBARA MAJORINO - 29/03/2019

Pietro Germi nei panni del commissario Ingravallo nel Maledetto Imbroglio

Pietro Germi nei panni del commissario Ingravallo nel Maledetto Imbroglio

Commissari di polizia nella storia del romanzo poliziesco italiano (e dei film tratti dai relativi libri) ce ne sono tanti. Oggi continua e prolifera più che mai la narrativa “gialla”, un genere sempre molto letto e apprezzato dal grande pubblico. Non dimentichiamo che si usa l’ accezione relativa al colore, solamente nella lingua italiana. Ciò si deve alla collana Il Giallo Mondadori, ideata da Lorenzo Montano e pubblicata in Italia da Arnoldo Mondadori a partire dal 1929: il termine “giallo”, dal colore della copertina, ha sostituito in Italia quello di “poliziesco”, rimasto in uso nei paesi francofoni (policier).

In Italia abitano centinaia di investigatori letterari, uno per ogni città o regione, forse perché la vocazione localistica da noi, è più forte che altrove. E i luoghi sono spesso i destini dei personaggi. Si pensi a Marinella per Montalbano di Camilleri, ma anche a Parma per il “Gialloparma” di Bevilacqua.

Fare un atlante degli investigatori italiani, prima del fortunato Montalbano, sarebbe troppo lungo. Mi limito a citare i classici più conosciuti: Il maresciallo Gigi Arnaudo ne “I racconti del maresciallo” di Mario Soldati, il capitano dei carabinieri Bellodi nel “Giorno della civetta” di Sciascia. L’Ispettore Sciancalepre uscito dalla penna di Piero Chiara nel libro “I giovedì della signora Giulia”. Il commissario Santamaria nalla Donna della domenica” di Fruttero e Lucentini. E naturalmente il più classico dei classici: il commissario Francesco Ingravallo in “Quer pasticciacco brutto di Via Merulana” di Carlo Emilio Gadda.

Mi soffermo su quest’ultimo per arrivare a uno stupendo film ad esso ispirato. “Un maledetto imbroglio” di Pietro Germi (1959). Con un po’ di fortuna lo si può trovare in DVD, anche se è sempre più difficile ripubblicarli.

Germi è un grande cineasta italiano decisamente sui generis in quanto anche interprete e attore dei film che dirige, e la visione di “Un maledetto imbroglio” suggerisce lo spunto per un altro tema: il non poter venire mai a capo di una scomoda verità. Sì, insomma, l’intrigo investigativo che non si dipana e che non fa quasi mai piena luce sui delitti.

Vorrei partire innanzitutto dal capolavoro di Gadda “Quer pasticciaccio brutto della via Merulana”. Impensabile, a tutta prima, poterlo tradurre nello schermo, in quanto l’autore persegue nella sua intricata narrazione, dei fini linguistici.

Il romanzo è privo di un vero e proprio protagonista, o di un punto di vista che rifletta quello dell’autore, se non a tratti con il personaggio del commissario Ingravallo, rude e orgoglioso molisano che cerca di porre ordine in una situazione caotica e intricata. La mescolanza tra le situazioni, i personaggi e il loro linguaggio, danno luogo a un plurilinguismo e a un intreccio tra spaccato popolare e borghese. Nel romanzo, infatti, il virtuosismo linguistico e sintattico, il “barocchismo” e l’uso di più livelli di scrittura (dal dialetto popolare alla descrizione con echi manzoniani, dai termini arcaici fino alla pura invenzione di vocaboli) rappresentano la complessità della realtà ed insieme la sua essenza fatta di “percezioni”, l’affascinante “buccia delle cose”.

Detto “pasticciaccio”, secondo l’occhio disilluso di Gadda, riflette inoltre l’agglomerato di linguaggi e comportamenti, orrori e stupidità, della società italiana. Un narrato apparentemente comico (si pensi alla scena della defecazione della gallina), quindi, non deve trarre in inganno il lettore. Questo espediente vuole mettere in luce “il garbuglio” di un mondo che più che comico è grottesco, e svela così una condizione drammatica cui non si può porre rimedio. Secondo Gadda la realtà è troppo complessa e caleidoscopica per essere spiegata e ricondotta ad una logica razionalità. Per lui la vita è un caos disordinato, un “pasticciaccio” di cose, persone e linguaggi da cui non si riesce mai a trovare il bandolo dell’intricata matassa. Roma nei suoi abitanti, aggrovigliata nei suoi vicoli, nei suoi meschini interessi, nei mercati rionali, fornisce un labirinto nel quale all’investigatore non resta che progredire – o forse regredire. Il giallo non ha soluzione, non c’è un colpevole assicurato alla giustizia come di prammatica, e non si chiude con la scontata scoperta dell’assassino per le ragioni che ho già enunciato poc’anzi: il pessimismo di Gadda nei confronti della realtà per lui indecifrabile e inintelligibile.

“Un maledetto imbroglio” di Pietro Germi apporta nella versione cinematografica, modifiche che sono state fatte oggetto di studi specifici nientemeno che dall’Edinburgh Journal of Gadda Studies, detti studi intersemiotici tra il testo gaddiano e lo script di Germi coadiuvato dal bravo Alfredo Giannetti e da Ennio De Concini. La trama filmica: “In un appartamento di una vecchia casa signorile, nel centro di Roma, viene perpetrato un furto. Il commissario Ingravallo della squadra mobile (un Germi indimenticabile con cappello a larga falda, occhiali scuri e sigaro toscano tra i denti), ha appena iniziato le indagini per scoprirne l’autore, quando nello stesso edificio, nell’appartamento contiguo, viene commesso un assassinio. “Due bombe non cadono mai nello stesso posto?”.

Vedremo… L’uccisa è Liliana Banducci (con la n invece che con la l del romanzo originale), una donna ancora giovane, piacente, timida e riservata, con un portamento signorile (interpretata da Eleonora Rossi Drago). Il nuovo delitto costringe il commissario ad estendere le indagini, che da principio procedono a stento, poiché gli indizi sono slegati e frammentari. Ingravallo si interessa soprattutto alle persone più vicine alla vittima: un cugino (Franco Fabrizi), sedicente medico, che l’uccisa riforniva periodicamente di denaro; il marito (Claudio Gora), uomo taciturno e schivo, ma dal comportamento ambiguo; una servetta imbarazzata e sconcertante (Claudia Cardinale) e il suo fidanzato mariuolo e poco di buono (Nino Castelnuovo). I sospetti del commissario si accentrano sui due primi personaggi e le sue indagini lo portano a scoprire che entrambi mantengono dei rapporti sessuali con Virginia (Cristina Gajoni), una ragazza alquanto squilibrata che, a suo tempo, prestò servizio in casa della signora Liliana. Attraverso pazienti indagini, alternate ad astuti tranelli, il burbero commissario s’avvicina a poco a poco alla verità che appare in piena luce quando il ritrovamento di alcuni gioielli rubati permette di collegare il furto e l’assassinio. Il ladro e l’assassino sono in realtà la stessa persona… Come si può constatare, il testo gaddiano resta volutamente irrisolto, mentre Germi dopo i barocchismi di un’investigazione tormentata mette un finale chiuso al suo film, come nella tradizione classica del poliziesco anglo-americano. Inoltre non rinuncia all’economia del racconto e ad un buon ritmo secco e sostenuto, impreziosito dalla colonna sonora del maestro Carlo Rustichelli che con Germi seppe creare un binomio visivo-musicale simile a quello di Fellini con Nino Rota, o a Leone con Morricone. Da segnalare la canzone “Sinnò me moro” cantata dalla figlia Alida Chelli, che rinuncia alla prima parte del suo cognome quale vezzo artistico.

E tuttavia nonostante la mirabile premessa di Pietro Germi secondo la quale, il cinema non deve ridursi a cercare le sue storie nei romanzi e deve rivendicare una sua “autonomia” (1964), mi pare che alla fine, lo spirito gaddiano venga creativamente traslato in un’amara concezione sull’umanità che si riverbera anche nel suo cinema: forse i due autori avevano caratterialmente, molto in comune. I personaggi su cui investiga Ingravallo, hanno tutti quanti scheletri nell’armadio da nascondere, scheletri sui quali nulla può il bravo commissario, in quanto non direttamente legati al caso in oggetto.

Pertanto, nessuno degli indagati è personaggio veramente innocente e specchiato. “Meriteresti la galera” è infatti la frase preferita, quasi un leit motiv di Ingravallo al cospetto di questa genìa. Possiamo affermare che Ingravallo è un moralista? Certamente, anche se poi mantiene per sé le sue idee e concezioni etiche, ma si limita con disincanto e cinismo a perseguire dettaglio su dettaglio le sue investigazioni, assicurando l’omicida alla giustizia.

Ce lo dimostra con l’efficace similitudine della sua inchiesta da lui paragonata ai “sassi di un parco che appena li si sposta vi si trovano vermi e verminai al di sotto” – una concezione dell’umanità del tutto pessimistica. Non si può fare a meno di constatare che la storia di questo nostro sventurato Paese sui cui delitti di stato non si giunge mai a far definitivamente luce (caso Mattei, caso Moro, caso Ustica ecc.), ricorda non poco il “pasticciaccio” citato. O se vogliamo, anche l’imbroglio maledetto. Quello da cui non se ne viene mai a capo.

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