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Spettacoli

PRATERIE LONTANE

BARBARA MAJORINO - 17/05/2019

westernIl cinema western, il mito della frontiera. Continua un’esplorazione in un genere cinematografico tra i più amati e o più attraversati.

 Anche l’imposizione dei codici d’onore e di una scala valoriale che spesso fatica ad affermarsi in mezzo a tanta selvaticità, sono parte integrante del western classico. È il caso di “Mezzogiorno di fuoco” di Fred Zinnneman con Gary Cooper e Grace Kelly, e di “Un dollaro d’onore” (Rio Bravo) di Howard Hawks con John Wayne, Dean Martin impreziosito dalla presenza di Angie Dickinson.

 In entrambi i film, il paesaggio è urbano fatto di semplici case di legno con i portici, primi insediamenti di quelle che poi saranno col tempo, le future città, e anche in questi due esempi, c’è uno sceriffo coraggioso raddrizzatore di torti. Ma nel western, capitano pure sceriffi corrotti e per così dire “venduti” al potente di turno.

 “Mezzogiorno di fuoco” narra di uno sceriffo che sta per lasciare il paese perché si sposa con una quacchera, ma che è costretto a ritornare indietro perché un pericoloso bandito che lui aveva fatto imprigionare è stato rilasciato. Il film è scandito da una tensione tutta psicologica dove il protagonista è impegnato a chiedere aiuto, ma uno ad uno tutti gli abitanti si defilano. Alla fine rimane solo ad affrontare la banda avversaria.

 Con una regia e una qualità delle inquadrature abbastanza inusuali nel genere, Zinnemann si sofferma sulla solitudine dell’eroe sottolineandone la fatica, il sudore, la paura e, da qui, il coraggio che ne scaturisce. Per nulla invecchiato, è costruito sulla coincidenza del tempo del film, con quello dell’azione del personaggio che deve agire dalle 10,30 alle 12. L’eroe alla fine ce la farà grazie all’aiuto della moglie e se ne andrà dal paese gettando nella polvere la stella di sceriffo. Il film fu un enorme successo di pubblico e di critica.

 La figura dell’ascetico “giustiziere” retto e onesto, interpretata da Gary Cooper troverà poi un interessante epigono in Clint Eastwood nei suoi “cavalieri pallidi” e “texani dagli occhi di ghiaccio”. Ma non dimentichiamo che già il biondo Alan Ladd fu un misterioso “Cavaliere della valle solitaria” (film di George Stevens) che scendendo dai monti del Wyoming, libera la vallata dalle prepotenze di ricchi rancheros, fa il lavoro di giustiziere e misteriosamente se ne va.

 Più rude e muscolare John Wayne in un “Dollaro d’onore” nel ruolo di uno sceriffo che oltre a regolare i conti con i fuorilegge, ha anche un ruolo di traino nel “salvare” Dean Martin dall’alcolismo che lo rende vile e passivo, in un contesto in cui occorre invece, essere vigili e reattivi. Ma il ruolo più adatto a “the Duke” (così Ford battezzava Wayne) è quello dello zio Ethan, abile pistolero confederato, reduce dalla Guerra di Secessione che nel già citato “Sentieri selvaggi” fa il vendicatore di suo fratello e della sua famiglia morti bruciati nel rogo della loro casa, dopo essere stati scotennati dal selvaggio capo comanche Scout rapitore della sua nipotina Debbie.

 L’impresa della ricerca o “cerca” (il titolo originale inglese è infatti “The Searchers”) insieme al giovane Martin, fratellastro della piccola Debbie, dura parecchi di anni e alla fine trovano il campo indiano, dove i due si introducono fingendosi mercanti interessati al baratto. Debbie (Nathalie Wood) diventata donna, figura tra le mogli del capo dei Comanches, ragion per cui lo zio Ethan la disconosce come nipote e vuole ucciderla. Ma il fratello Martin glielo impedisce. Dopo un lungo dissidio interiore, nel rude Ethan prevarrà alla fine uno spirito paterno e benevolo che lo porterà a salvare la ragazza, riportandola a casa per affidarla a una buona famiglia di vicini amici.

 Finita la missione, il film si chiude con le famiglie che si riuniscono, il giovane Martin che ritrova la sua fidanzata, mentre Ethan esce di casa. La sequenza iniziale con la stanza buia della casa di legno che man mano si apre sul paesaggio assolato e quella finale con la stessa inquadratura e la sagoma corpulenta di Ethan-John Wayne che rimpicciolisce forse condannato alla solitudine del cavaliere errante, sono semplicemente stupefacenti. Forse Ford che è un classico, ma anche un innovatore, vuol suggerirci che ormai il Lontano Ovest è stato creato, e quegli uomini come Ethan che la società civile “usò” per “ripulire” il deserto, sono destinati a restare “fuori dalla porta”, perché adesso quella stessa società, un tempo sanguinaria e insensibile deve “autocrearsi”. Pertanto ha bisogno di darsi una parvenza di giustizia e umanità. Secondo molti registi da Scorsese a Cimino (il quale volle girare anche lui un apprezzabile western come “I cancelli del cielo”), “Sentieri selvaggi” resta uno dei più bei film della storia del cinema, classico e insieme innovativo, geniale nella capacità di Ford di rendere il dilatarsi del tempo che scorre e il transitare delle stagioni nel paesaggio come nei personaggi.

 Abbiamo così appurato che in fondo il western classico è una rivisitazione della “chanson de geste” col cavaliere romantico senza macchia e senza paura che raddrizza i torti, ma poi se ne va al suo destino. In realtà i protagonisti di questo genere cinematografico affondano le loro radici nella cultura americana e pionieristica del self-made man, del sogno americano che mirava a forgiare un “uomo nuovo” fattivo e concreto, non più inglese, né tedesco immigrato dall’Europa o altro, ma orgogliosamente americano, incerca di fortuna (opportunity) rappresentata magari da una terra fertile da coltivare, da bestiame da allevare, da una miniera da sfruttare, o anche da una ricca taglia legata alla cattura di un fuorilegge (“wanted”).

 Secondo lo storico Turner il colono giunto nel mondo nuovo, si spogliava del bagaglio fisico e culturale che si era costruito in Europa, e attraverso l’esperienza della “wilderness” forgiava la nuova civiltà puramente americana. La vita semplice e rude dei pionieri produsse l’autocoscienza condivisa. Altri temi classici della frontiera, sono l’amicizia virile, la donna contesa, il lungo viaggio (anche fluviale lungo le stupende vallate del Missouri), tutti elementi riscontrabili nel capolavoro di Howard Hawks “Il grande cielo”, storia di due cacciatori di pellicce (Kirk Douglas e Dewey Martin) che cercano di spezzare il monopolio di una grossa compagnia del Missouri rifornendosi direttamente dagli indiani. Il viaggio fluviale su una grossa zattera non sarà esente da pericoli, ma verranno aiutati da una principessa indiana che si innamorerà di uno di loro. Kirk Douglas aggiunge ironia e simpatia al personaggio che sarebbe dovuto toccare a John Wayne, il quale invece rifiutò il copione.

 Spesso le ballate western aggiungono allegria alla sceneggiatura come la famosa “Oh whisky leave me alone”, cantata da Kirk Douglas nel saloon insieme all’amico che gli fa il controcanto. Dean Martin in un “Dollaro d’onore”, intona invece una nostalgica ballata insieme al teen-idol Ricky Nelson che lo accompagna alla chitarra mentre il “vecchietto del West” suona l’armonica a bocca sotto lo sguardo divertito di John Wayne.

 Molti western ebbero colonne sonore con canzoni folk e ballate interpretate da Frankie Laine (“L’Albero degli impiccati” e “Quel treno per Yuma”, film entrambi firmati da Delmer Daves), ballate che sottolineano le epiche gesta di qualche pioniere. Consapevole di lasciare indietro molti altri registi di tutto rispetto come John Sturges, John Huston, Richard Brooks, mi soffermo sul celebre “Corvo rosso non avrai il mio scalpo” di Sidney Pollack (1972), film che narra la storia del trapper Jeremiah Johnson, nel quale, pur ricalcando i moduli della frontiera e della “wilderness”, gli indiani appaiono “ostili” ma non inferiori all’uomo bianco.

 Il cinema western è stato, sin dalle origini, l’occasione di un ripensamento generale sul senso stesso della missione americana nel mondo. Gli Stati Uniti sono in fondo il paese con la storia più “corta del mondo”, e in quanto tale hanno dovuto sopperire alla mancanza di un passato millenario che noi europei custodiamo gelosamente, creandosene uno breve ma (apparentemente) meraviglioso. Da qui, la fortuna della lunga favola del Far West, che segna un po’ l’infanzia dell’America, ma anche quella più allargata di tutto l’Occidente. Un cappello Stetson, un cinturone con una Colt, un paio di stivali con speroni, una lunga palandrana per ripararsi dalla polvere e la nostra mente penserà sicuramente ad un cowboy.

 “My rifle, my pony and me”, cantava Dean Martin nella celebre ballata di Rio Bravo, evocando lontane praterie. In fondo la poetica del western sta tutta qui.

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