Widgetized Section

Go to Admin » Appearance » Widgets » and move Gabfire Widget: Social into that MastheadOverlay zone

Società

JONAH E LA MACCHINA

FLAVIO VANETTI - 26/07/2019

jonah-lomuUn ricordo forte di una mia estate da giornalista sportivo? Presto detto: grazie a John Kirwan, all’epoca c.t. dell’Italia del rugby, ebbi modo di intervistare Jonah Lomu a casa sua, a Auckland. Eravamo alle soglie dell’estate 2004. Toccata e fuga in appena quattro giorni, viaggi inclusi, per parlare con il Terminator della palla ovale che la sorte aveva avviato a una realtà di malattia e di sofferenze: da anni era ormai costretto alla dialisi a causa di una rara forma di nefrite, avversario senza volto e ben più astuto di quelli che sfidava sul campo. Ma in quella casa sulla collina di Ponsonby – il salotto buono della città neozelandese diventata famosa anche per aver ospitato la Coppa America di vela -, Jonah non aveva perso la voglia di combattere. Anzi, era più battagliero che mai, anche se i ritmi della sua vita erano ormai dettati dalla macchina che gli purificava il sangue.

«È diventata un’amica, ci manca solo che dialoghi con lei» scherzò il gigante ex All Blacks, accompagnandomi nella camera da letto trasformata in un ambulatorio. Fu lui a proporlo, io non avevo osato chiedergli di mostrarmi lo strumento dal quale doveva dipendere. Lomu tirò fuori, come un bimbo che esibisce i giocattoli, filtri, aghi e altri attrezzi necessari a una pratica che doveva svolgere cinque giorni alla settimana e per otto ore a seduta. «Lavo il sangue di notte, così ci dormo sopra e non mi accorgo di nulla», spiegò. Il suo avambraccio destro era un massacro di buchi, di vene gonfie, era qualcosa che faceva impressione. In quei giorni era affiancato dalla bellissima Fiona Taylor, moglie-manager sposata in seconde nozze nell’agosto 2003, il mese in cui Jonah aveva giocato l’ultima partita (una partitella, in realtà).

Poi anche quel matrimonio andò a rotoli, tanto quanto la sua vita di atleta. Ma quindici anni fa Lomu guardava con fiducia al futuro: «Penso ancora al rugby? Certo che sì, in fondo è giusto che lo faccia e che lo consideri un obiettivo raggiungibile: un giorno tornerò». Sotto certi aspetti aveva ragione: quella con tutta probabilità fu l’ultima intervista in assoluto prima dell’operazione tanto attesa; la donazione arrivò nel giro di un mese e Jonah si sottopose al trapianto. Sarebbe anche tornato in campo, per onorare la promessa-impegno, ma non ci volle molto a capire che l’omaccione che correva come un centometrista e che passava sopra gli avversari, se necessario anche calpestandoli (chiedere a Will Carling, l’asso inglese che secondo i gossip avrebbe avuto una relazione con Lady Diana), non sarebbe mai più stato quello che, nel 1995, aveva incantato alla Coppa del Mondo.

Lo rividi nel dicembre 2005 a Calvisano nella Heineken Cup: era il momento del debutto con la maglia del Cardiff e quello era il suo primo incontro ufficiale dal 2002. Si ricordava dell’intervista, era contento. Ma quello fu l’inizio della parabola discendente, non di una nuova carriera: Jonah avrebbe gettato la spugna nel 2010 e nel novembre 2015, purtroppo, è mancato (nota: i suoi problemi renali sono considerati una delle ragioni primarie dell’arresto cardiaco che l’ha stroncato). Rileggendo l’intervista, oggi che non c’è più, vengono i brividi. Sognava di farcela «con la forza della mente» e con una felicità interiore che scaturiva dai consigli della madre, che gli ricordava come ogni giorno fosse meritevole di essere vissuto fino in fondo. Mi salutò con una nuova battuta («Ormai ne so più dei medici…») e senza imprecare contro il destino. «Dio è stato ingiusto con me? No, non lo penso».

Facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

You must be logged in to post a comment Login