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Attualità

L’OBOLO

SERGIO REDAELLI - 25/10/2019

A destra la sede dell'Istituto per le opere religiose

A destra la sede dell’Istituto per le opere religiose

Speculazioni immobiliari con i soldi dei poveri. Il nuovo scandalo che scuote il Vaticano è un passaggio obbligato sulla strada della trasparenza voluta da Francesco. I magistrati del papa indagano su una complicata storia di palazzi di lusso acquistati nel centro di Londra dalla Segreteria di Stato, di progetti d’investimento in piattaforme petrolifere al largo delle coste africane, di finanzieri d’assalto e astuti mediatori, legati alle banche, che probabilmente si sono arricchiti con i soldi del Vaticano. L’inchiesta entra a piedi uniti nel misterioso mondo della curia degli affari. Dolorosa fin che si vuole, ma necessaria per portare avanti l’opera di pulizia che sta a cuore a Bergoglio.

L’indagine ha finora provocato la sospensione di cinque dipendenti della Santa Sede tra cui il direttore dell’autorità Antiriciclaggio per non aver vigilato, al sequestro di computer e materiali digitali e all’avvicendamento del capo della gendarmeria pontificia, a cui non viene perdonato di aver pubblicizzato con troppo zelo la circolare interna con le foto segnaletiche degli indagati. Un documento che doveva restare riservato. Ma quel che più colpisce l’opinione pubblica è l’accusa mossa ad organismi vaticani di avere usato – per spericolate speculazioni finanziarie – le offerte dei fedeli ricevute dal Santo Padre e destinate a finanziare le opere di carità.

L’Obolo di S. Pietro è il contributo spontaneo dei fedeli al papa in auge da secoli. All’inizio fu il denarius Sancti Petri che l’Inghilterra, convertita intorno all’anno mille, pagava per il mantenimento degli anglosassoni a Roma e che polacchi e boemi versavano in cambio di un lume acceso in S. Pietro. La pratica del denarius fu interrotta nel 1534 quando Enrico VIII si fece riconoscere capo supremo della Chiesa anglicana incamerando le offerte per Roma e fu gradatamente dismessa nei Paesi che venivano man mano investiti dalla riforma protestante. Solo la cattolica Irlanda, sfidando i luterani, continuò a far arrivare a Roma il St. Peter’s pence.

Le elemosine ricominciarono nel 1848 con la fuga di Pio IX a Gaeta per sostenere le necessità del pontefice in esilio. E presero l’attuale nome di Obolo di S. Pietro nel 1860 con la perdita delle ricche province pontificie annesse al Regno d’Italia, mentre già dal 1859 gruppi di fedeli raccoglievano il denier de Saint Pierre in Francia e in Belgio. Il denaro andava personalmente al papa che ne disponeva con la massima libertà e alla fine di ottobre 1860 le collette avevano raggiunto la ragguardevole cifra di un milione e 600 mila scudi romani. Il clero pubblicizzava la raccolta delle offerte e i giornali conservatori le sollecitavano riportando i nomi degli oblatori.

La stampa avversaria invece tuonava contro. “Popolo apri gli occhi – malignavano i fogli anticlericali temendo la rinascita del potere temporale – Sai come va speso il denaro che il prete gesuita munge dalle tue tasche? Cinque decimi a Roma, due decimi nelle pignatte dei reverendi, due decimi non si sa e non si può sapere, un decimo per fare un soldato”. Nel 1878 Leone XIII ne affidò l’amministrazione a una commissione dipendente dal prefetto dei palazzi apostolici. E nel 1929 vi confluì la somma versata dall’Italia al Vaticano per chiudere la Questione Romana con la Convenzione finanziaria dei Patti Lateranensi e il risarcimento di un miliardo e 750 milioni di lire.

Oggi l’Obolo è compreso fra i beni della Santa Sede, amministrati da una commissione cardinalizia presieduta dal segretario di Stato. Come sappiamo non mancano i problemi. Il nuovo libro-inchiesta di Gianluigi Nuzzi, anticipato da Ezio Mauro su Repubblica, parla di sacro-crac, afferma con documenti inediti che l’Obolo è dimezzato negli ultimi dodici anni (da 101 milioni nel 2006 a 51 nel 2018), che solo 2 euro su 10 vanno davvero ai bisognosi, che l’Amministrazione del patrimonio della sede apostolica ha i bilanci in rosso e c’è il rischio di fallimento. Una tesi prontamente smentita su Avvenire dal presidente dell’Apsa, Nunzio Galantino.

Galantino nega che il risultato negativo del bilancio sia la conseguenza di “una gestione clientelare e senza regole, di contabilità fantasma e del sabotaggio dell’azione del papa”, come è stato scritto. “In realtà – spiega – la gestione ordinaria dell’Apsa nel 2018 ha chiuso con un utile di oltre 22 milioni di euro. Il dato negativo contabile è esclusivamente dovuto a un intervento straordinario volto a salvare l’operatività di un ospedale cattolico e i posti di lavori dei suoi dipendenti”. Il cardinale Oscar Rodriguez Maradiaga, che fa parte del consiglio chiamato a riformare la curia, conferma.

“Dire che il Vaticano è a rischio default è falso e non mi risulta che i soldi dell’Obolo di S. Pietro vengano usati per operazioni finanziarie. Le entrate economiche di cui dispone vengono da più parti, non soltanto dall’Obolo, ci sono anche gli incassi dei musei vaticani. A me sembra che sia in atto una strategia di screditamento del papa”. Il vicepresidente della Cei Antonino Raspanti aggiunge: “Il patrimonio finanziario o immobiliare che viene lasciato alla Chiesa deve produrre reddito per portare avanti le opere caritative e missionarie. Altrimenti diventa un peso. Ma deve garantire un reddito senza speculare ed è complicato perché il confine è sottile”.

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