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Presente storico

GAUDERE SEMPER

ENZO R. LAFORGIA - 08/11/2019

ricolfiLa Repubblica italiana, un tempo fondata sul lavoro,dalla metà degli anni Novanta si è trasformata in una Repubblica fondata sulla rendita. Il patrimonio accumulato dalla generazione dei nostri padri (i nonni delle generazioni attualmente più giovani) consente oggi, alla maggioranza dei cittadini italiani, di poter dedicare un tempo libero sempre più dilatato a consumi «opulenti»: vacanze brevi e lunghe; la cura del proprio corpo; il cibo (o meglio, il food); un’infinità di servizi per alleggerire le incombenze o le responsabilità familiari (badanti, colf, baby sitter, lezioni private o pedagoghi domestici); shopping compulsivo di beni superflui; droghe e sostanze psicoattive, legali e illegali. E tutto questo, proprio nel momento in cui, per la prima volta nella nostra storia nazionale, il numero di italiani che non lavorano è maggiore di quelli che lavorano.

Tale quadro risulta ancora più stupefacente se si considera che dal 2009 l’Italia è in una situazione che gli economisti definiscono di stagnazione, cioè: la nostra economia non cresce più e il tasso di crescita, da dieci anni a questa parte, è negativo.

Ricapitolando:

nel nostro Belpaese si consuma molto più di quanto non si produca e l’economia non cresce più da un pezzo.

Conclusione:

benvenuti nella «società signorile di massa».

Società signorile di massa è la formula coniata dal sociologo Luca Ricolfi (in un volume dallo stesso titolo, uscito di recente per l’editore La Nave di Teseo) per descrivere l’inedita configurazione sociale, che ha assunto l’Italia.

Perché si possa parlare di società signorile di massa occorre che sussistano tre condizioni: un’enorme ricchezza disponibile; la «distruzione della scuola»; la formazione di una «struttura paraschiavistica». L’enorme ricchezza disponibile è il risultato, come si diceva, del risparmio dei padri. Oggi, a fronte di un’economia che non cresce, il potere di acquisto medio è quasi quadruplicato rispetto ai primi anni Cinquanta.

Cruda e veritiera è l’analisi dedicata alla progressiva «distruzione della scuola», iniziata negli anni Sessanta. Su questo aspetto gli studi non mancano. In sostanza, la scolarizzazione di massa non ha saputo garantire una formazione di massa, continuando ad abbassare il livello effettivo di istruzione offerta. Adottando una immagine presa in prestito dagli studi economici, Ricolfi, impietosamente ma realisticamente, ci ricorda che «l’istruzione è l’unico settore della società italiana in cui la produttività è in costante diminuzione da oltre mezzo secolo». Cosa significa? Significa che, se nel 1962 occorrevano otto anni di formazione per impossessarsi di conoscenze, abilità espressive e comunicative e capacità logiche di base, oggi probabilmente ne servirebbero quindici. E cioè: «in mezzo secolo la produttività dell’istruzione è, come minimo, dimezzata».

La scuola italiana è oggi una «scuola senza qualità»: la pressione a promuovere ha reso i percorsi di studio più facili, infiacchendo la capacità degli studenti ad affrontare con impegno e sacrificio i traguardi formativi; l’abbassamento degli standard ha inflazionato i titoli di studio. Ma imprese e mercato selezionano sulla base di comprovate capacità e non dietro l’esibizione di un “pezzo di carta”. Questo ha danneggiato le classi popolari (perché chi può, sostiene i figli con percorsi di formazione paralleli e privati) e avrebbe prodotto un fenomeno nuovo: la disoccupazione volontaria. Si rifiuta il lavoro, perché non lo si ritiene all’altezza delle proprie presunte capacità o perché non lo si ritiene adeguato al titolo di studio così facilmente conseguito. Abbassando continuamente l’«asticella» dei suoi obiettivi formativi, la scuola ha alimentato false illusioni: «la scuola e l’università hanno reso possibile, a milioni di giovani e meno giovani, credersi in possesso di abilità e talenti che il mondo del lavoro, meno idealista e superficiale di quello della cultura, non sempre scorgeva, e meno che mai si sognava di riconoscere».

Ancora più agghiacciante, almeno dal mio punto di vista, lo scoprire che il nostro Belpaese può continuare a consumare allegramente senza produrre in virtù di una «infrastruttura paraschiavistica». Questa è costituita da una parte della popolazione residente (spesso stranieri) utilizzata «in ruoli servili o di ipersfruttamento, perlopiù a beneficio di cittadini italiani». Agghiacciante, appunto…

In realtà, basta guardarsi un po’ in giro per rendersene conto. I lavoratori stagionali, le persone di servizio dedicate alla cura domestica o all’assistenza degli anziani, i braccianti, i lavoratori dell’edilizia, gli addetti alle consegne di merci… Questa massa di produttori, raggiunge forse la cifra di 3milioni di persone, pagate quasi sempre in nero, invisibili, in gran parte stranieri, che vivono al di sotto della soglia povertà.

Tutto questo ha avuto ed ha, ovviamente, una ricaduta sulla mentalità, perché ad una società signorile di massa, sostiene Ricolfi, corrisponde una «mente signorile». Non abbiamo qui il tempo e lo spazio per approfondire questo aspetto, che si traduce, sinteticamente,nel disagio e nell’amarezza del ceto medio e le cui identità sociali sono sempre più mobili e instabili.

Il punto centrale, mi pare, di questa nuova fotografia della nostra società è che l’Italia ha ormai raggiunto un livello di prosperità e di benessere che consente a molti di non lavorare, ma non ha più la capacità produttiva di garantire tali livelli di benessere e di prosperità per molto tempo ancora. Insomma, stiamo consumando quanto i nostri padri hanno accumulato e stiamo allevando generazioni destinate alla frustrazione delle proprie aspettative… e poi?

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