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Divagando

NATALI DI GUERRA

AMBROGIO VAGHI - 20/12/2019

radioLe feste natalizie suscitano spesso ricordi lontani di tempi in cui le incertezze, le paure dominavano la nostra esistenza. Eppur occorreva decidere, muoversi, prendere una strada. Le festività di fine anno del 1943 e del 1944 le ultime al finire della guerra mi hanno lasciato un segno maggiore delle precedenti. Sia per ragioni intime personali sia perché la Repubblichina di Salò, nata a copertura degli invasori tedeschi, aveva messo italiani contro italiani. Era cominciata la Resistenza armata. Dopo i bombardamenti dell’agosto del ’43 che avevano semi distrutta e resa inabitabile la mia residenza di Milano, orfano del papà, con la mamma ero tornato nel basso novarese nella casa rurale dei nonni. Pendolavo tra Vespolate e Varese ospite degli zii e dove avevo molte amicizie.

L’episodio del San Martino mi aveva tenuto alquanto a lato. Eppure il mondo è tanto piccolo. Solo a guerra finita ho saputo che quel Colonnello Giustizia protagonista dell’eroica vicenda altri non era che il signor Carlo Croce che avevo conosciuto a Milano con l’officina in via Pietro Crespi all’angolo di Via Marco Aurelio, di rimpetto alla trattoria di mio zio Peppino.

Io, ammesso alla III superiore dell’Istituto Magistrale Virgilio di Milano, non mi ero iscritto all’anno successivo e meditavo su che fare. I compagni di scuola si erano anche loro dispersi. Credo che tutti siano stati assillati da problemi di coscienza nel pensare alle scelte di campo. Conoscevamo i nostri orientamenti politici, eravamo in gran parte antifascisti. Forse un fatto sociologico. Le nostre famiglie non erano ricche. Provenivamo da padri operai o del ceto medio che avevano preferito avviarci presto ad un lavoro dignitoso. Troppo onerosi i licei e i conseguenti lunghi corsi universitari.

A guerra finita ho avuto la conferma dei miei convincimenti quando mi ritrovai con Raffaello Uboldi e Luigi Vismara, socialisti, giornalisti affermati al “Giorno” di Italo Pietra. Uno inviato speciale e l’altro corrispondente da Mosca.

Ero rimasto in contatto con Pino Vignali, un vero amico abitante a Melegnano, di famiglia povera ma succube di uno zio decisamente fascista. Pino, nonostante i divergenti orientamenti politici, mi passò il programma di studio della III e dei testi in uso al Virgilio. Ora pensavo di studiare a casa, coi libri di mia cugina Dina che aveva fatto anche lei le Magistrali. Più tardi avrei deciso.

Avevo una folle paura che il fronte di guerra si avvicinasse e immaginavo che la valle padana diventasse il teatro di scontro tra migliaia di mezzi corazzati tedeschi e altrettanti dei nostri liberatori alleati avanzanti da sud.

Non ero un “renitente” perché non avevo ancora obblighi di leva ma la vita era egualmente difficile per i giovani oggetto di rastrellamenti da parte di GNR, Brigate Nere, bande fasciste di ogni genere desiderose di offrire ai tedeschi braccia per il lavoro coatto. Scavare fortificazioni, nel migliore dei casi, o l’invio in Germania.

Pendolavo e pedalavo tra la casa dei nonni e quella degli zii a Varese. Qualche oretta di bicicletta a buon ritmo sperando di non incappare in qualche posto di blocco soprattutto attraversando il Ticino nei pochi punti praticabili.

Il Natale del ’43 mi trovò quindi ancora confuso “ alla finestra “ in frequente compagnia con un altro giovane di Vigevano nascosto in casa di parenti, col quale scambiavo apprensioni, paure e speranze. Ascoltavamo ogni sera Radio Londra da un mio super Phonola a 5 valvole mignon, che consentiva la ricezione in onde corte.

Ho passato quel Natale con mamma nonni e bisnonni nella loro casa colonica. Nessun addobbo tranne in un angolo il piccolo presepe di cartone richiudibile che avevo salvato e portato con me fin da bambino.

Pranzo da nababbi in una epoca in cui dal pane, al burro, al riso, tutto era razionato a pochi grammi al giorno. La nonna Maria che era stata a servizio nelle cucine dei nobili del Castello di Nibbiola, aveva appreso il mestiere ed era diventata una ottima cuoca. Via dunque con un sontuoso antipasto di rigaglie di pollo e poi un risotto coi fiocchi. Non la solita paniscia con solo verdure ma un risotto con fegatini di pollo, cioè “ i fasoeu de Milan “. Poi il cappone cresciuto nel nostro pollaio.

Un po’ di festa e tanta neve. A Varese mi avevano fatto un paio di scarponi da sci a punta quadrata con pelle grassa e cuoio uscito per vie traverse dal Calzaturificio dei Trolli. Ne ero fiero e blindato coi mei piedi che avevano sempre sofferto di geloni. La neve non mi faceva più paura.

L’avvenire era sempre buio ma le notizie sui fronti di guerra ora ci dicevano che ormai la grande potenza nazista si avviava al tramonto. Di parere opposto erano i fascisti i quali speravano in un rovescio della situazione. Speravano nelle armi segrete e in effetti le bombe volanti, le V2, raggiungevano l’Inghilterra e distruggevano intere città.

In estate lo sbarco in Normandia delle truppe americane segnò l’inizio della fine di quella immane guerra di conquista del mondo scatenata 5 anni prima dalla Germania nazista.

Io avevo studiato in solitudine e mi presentai come privatista al Magistrale Tornielli Bellini di Novara. Promosso e abilitato all’ultimo anno ero ancora incerto se iscrivermi normalmente e frequentare.

La Resistenza contro i nazifascisti si era fatta più dura e avevo riannodato i contatti con il gruppo di vecchi amici e compagni antifascisti varesini. In un gruppo di azione partigiana partecipai ad alcune azioni di sabotaggio. Ero molto giovane e i più anziani che avevano già combattuto sui fronti di guerra poco si fidavano dall’imberbe studentello che si era aggregato a loro. Infatti mi affidavano la funzione del “palo” e di ricognizione del territorio prima del colpo. Inoltre prestavo la mia Beretta calibro 9, quella famosa trovata nella marmellata dell’ufficialetto in fuga l’8 settembre. C’erano moschetti e qualche mitra procurati disarmando fascisti repubblichini ma difettavano le armi corte.

Per me andava bene così. Non avevo la tempra dell’eroe e il mordi e fuggi, classico della guerriglia, lo condividevo perfettamente. Del resto tutta l’organizzazione era garibaldina, fantasiosa, rapida del decidere e attuare azioni di attacco. Aspetti questi senz’altro positivi uniti tuttavia a pericolosa precarietà organizzativa. La conferma ci venne più avanti con “l’ottobre di sangue” che portò dolore e morte in numerosi gruppi partigiani.

Io mi ero messo al sicuro con una certa libertà di movimento che mi permetteva di essere staffetta, collegatore e partecipante alle azioni. Avevo seguito un buon consiglio. A settembre mi ero iscritto alle Magistrali di Novara. Questo mi permetteva di avere in tasca un prezioso lasciapassare rilasciato dal Comando di Piazza Germanico. Una meraviglia. Quando lo vedevano i fascisti quasi si mettevano sull’attenti. Naturalmente le mie presenze a scuola erano poche. Facevo il pendolare con Varese. La nostra organizzazione era diventata, più attenta, rigorosa meno penetrabile.

Le feste di fine anno ‘44 mi hanno trovato nuovamente con madre e nonni per un pranzo ancora più succulento. Ai soliti pennuti da cortile si erano aggiunti salumi, lardo e pancetta del grosso maiale che era stato allevato e macellato poche settimane prima.

Io lo sentivo un oltraggio verso chi era costretto a vivere con quel poco che passava il razionamento e non aveva soldi per procurarsi al mercato nero ogni ben di dio. Ne sentivo quasi vergogna.

Ma già in quei giorni si aveva la sensazione che il clima politico stesse cambiando. Si vedevano meno fascisti in giro. Ne ebbi conferma una fredda domenica di un pallido sole passata con ragazzi sulle rive del fiume Agogna al suono di una fisarmonica. Alle note dello struggente tango della Paloma, disteso sul prato, chiusi gli occhi e sognai. Sognai quella bianca colomba che ci portava finalmente la pace.

Oggi posso riflettere sulla vita che la guerra ha rubato a diecine di milioni di persone morte sui fronti o vittime civili e ripenso anche alle gioie sottratte ad una generazione di adolescenti sopravvissuti che si ribellava e difendeva, anche rischiando, la propria giovinezza.

Penso ai primi passi di danza appresi in aula in assenza dell’insegnante. La Mara e altri cantavano il tango del mare e insieme ballavamo tra i banchi trascinati da qualche ragazza più esperta dei maschietti imbranati. Le danze erano proibite così come la musica che più ci piaceva. Un pianista cieco di Vigevano teneva concerti nelle sale dei dopolavoro della zona e veniva boicottato. Entusiasmava con rivisitazioni in jazz di motivi classici di canzoni americane che conosceva alla meraviglia. Ma quella era musica dei “negri” al massimo ribattezzata musica sincopata! Come pure ogni sving del Natalino Otto trovava porte chiuse. La stessa diva del momento, la grande Wanda Osiris, dovette adottare un nome meno straniero come Osiri. Sembravano ridicolaggini… ma come viene da lontano certo razzismo.

Il 25 aprile, che ha aperto un vero ritorno alla Pace e alla Democrazia, non ha potuto ripagare una generazione dei tanti anni di perduta giovinezza. A questa generazione si aprivano gli anni dell’impegno adulto, maturo per la ricostruzione morale e materiale del Paese.

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