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Chiesa

PIANGEVA VICINO AL SEPOLCRO

MASSIMO CRESPI - 06/04/2012

Maria invece stava all’esterno vicino al sepolcro e piangeva. Mentre piangeva, si chinò verso il sepolcro e vide due angeli in bianche vesti, seduti l’uno dalla parte del capo e l’altro dei piedi, dove era stato posto il corpo di Gesù. Ed essi le dissero: “Donna, perché piangi?”. Rispose loro: “Hanno portato via il mio Signore e non so dove lo hanno posto”. Detto questo, si voltò indietro e vide Gesù che stava lì in piedi; ma non sapeva che era Gesù. Le disse Gesù: “Donna, perché piangi? Chi cerchi?”. Essa, pensando che fosse il custode del giardino, gli disse: “Signore, se l’hai portato via tu, dimmi dove lo hai posto e io andrò a prenderlo”. Gesù le disse: “Maria!”. Essa allora, voltatasi verso di lui, gli disse in ebraico: “Rabbunì!”, che significa: Maestro! Gesù le disse: “Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre; ma va’ dai miei fratelli e dì loro: Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro”. Maria di Màgdala andò subito ad annunziare ai discepoli: “Ho visto il Signore” e anche ciò che le aveva detto. (Giovanni 20, 11-18)


 

Come Maria, piangiamo. Piangiamo perché ci hanno portato via qualcosa di valore, che era nostra. Ci sembra perduta, perduta per sempre; la possibilità di recuperare quella cosa ci è negata poiché non sapremmo dove e in che maniera ritrovarla. Ma basterebbe voltarci indietro, come Maria, per vedere che sta lì, nuovamente; eppure non ci sarebbe sufficiente rivederla per credere che sia proprio l’identica cosa che ci è venuta meno. Girandoci indietro la vedremmo cambiata, non la riconosceremmo; non crederemmo sia proprio la medesima cosa, scomparsa all’improvviso da dove l’avevamo posta, ad essere tornata a noi.

La Pasqua, la povera Pasqua che non si sente più, che non si festeggia più, si riassume nell’incapacità di vedere nuova la cosa che ci manca tanto, nell’incapacità di passare ad una differente consapevolezza delle grandi cose che ci stanno davanti ma che non riconosciamo presenti. Non riconosciamo quelle cose perché sono cambiate e, mutando, si sono trasformate seguendo la loro natura, secondo la loro conformazione e la loro vocazione; ci comportiamo come chi vedendo delle uova schiuse ed abbandonate le pensa soltanto come sarcofagi vuoti, senza considerare che segnano l’esistenza di chi contenevano.

Se nominiamo quelle cose preziose che crediamo distrutte, perdute per sempre, esse divengono persone che ci mancano. Nella Pasqua ci manca Gesù che muore, ci mancano le nostre mogli, i nostri mariti, defunti, ci mancano i figli scomparsi, ci mancano gli amici i quali non ci sono più. Ci manca tanto papà, ci manca la nostra mamma… Sono tutti lì dietro di noi; ci voltiamo, ma non sappiamo che sono loro: sono cambiati, si sono trasformati, non sono più come li pensiamo. Sono risorti e ci chiamano: “Maria!”; allora li riconosciamo dalla voce, che è continuamente la stessa, amorevole ed unica. Ci sono persone però che non sono scomparse, tuttavia stanno con noi senza che le consideriamo, che le comprendiamo nel loro dire. Le abbiamo pensate da sempre lì, in un certo posto, in un certo modo; poi però non ci sono state più, si sono spostate, si sono trasferite davvero oppure solo con la testa, con i loro pensieri, dove non sappiamo. Sono sempre le mogli, i mariti, i figli, i genitori, i compagni, i quali non corrispondono all’aspettativa, tutta nostra, di vederli in quel certo modo o in quel certo posto. Ogni tanto diciamo che qualcuno ce li ha portati via, rapiti, per non ammettere che essi stessi se ne sono andati; via dai vecchi modi di essere e di fare, via dalle case che si sono fatte troppo strette ed anguste, via da chi li faceva sentire male e toglieva loro la vita a poco a poco, via da noi. Possiamo ritrovarli: smettiamo di piangere. Essi vogliono restare con noi che siamo la loro famiglia, con intensità, ma devono venire compresi; conosciuti nelle loro nuove vesti, graditi nelle loro nuove facce ed abbracciati, senza trattenerli, poiché non sono ancora saliti al Padre: stanno attraversando le acque tempestose dell’esistenza. Dobbiamo oltrepassare quel mare con loro; solamente raggiunta la sponda li potremo stringere. È la nostra Pasqua quel passaggio che ci manca per annunziare che è cambiata la nostra condizione di gente che è triste e piange; ora grida, per la gioia della vita senza fine e per la possibilità di trasformarsi coi fratelli, in Cristo… “Hai mutato il mio lamento in danza, la mia veste di sacco in abito di gioia, perché io possa cantare senza posa” (Sal 29, 11-13)…

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