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Il racconto

L’ERBA CHE NON C’È PIÙ

LUISA NEGRI - 24/07/2020

valle-vigezzoDomus dei haec est et porta coeli. Il sole che calava sulla piccola piazza illuminava la scritta sul portale della chiesa inondandola della sua luce dorata. Il brusio sommesso della celebrazione pomeridiana andava spegnendosi in un sussurro devoto prima dell’Ite, missa est, quando tutti sciamavano all’esterno a gruppi serrati. Le vecchie con le vecchie, i giovani con i giovani. Era questo, con la messa quotidiana, uno dei tanti incontri che avvenivano ogni giorno nel paesino di Vocogno, su quella piccola piazza squadrata, circondata dal verde.  Che però, nonostante l’esiguità fisica, era il cuore pulsante delle estati vigezzine di pochi residenti e parecchi villeggianti in cerca di aria pulita, frescura e serenità. Arrivavano ogni anno, affezionati da sempre alla Valle Vigezzo- conosciuta ancora oggi come la Valle dei Pittori-alcuni dalle grandi città: Milano, Torino, Genova, anche Roma. E tra loro ricorrevano nomi importanti di professionisti, esponenti dell’industria, funzionari di stato, anziane vedove benestanti. Non pochi avevano grandi ville di famiglia, con invidiatissimi campi da tennis.
La maggior parte dei villeggianti era però rappresentata da famiglie del ceto medio con figli a carico che prendevano in affitto appartamenti, o vecchie case per l’intera stagione, a prezzi ragionevoli.
Noi eravamo tra questi. Quattro figli e un solo stipendio, per quanto discreto, non permettevano vacanze in albergo, né sarebbero state troppo gradite per la disciplina richiesta e la difficoltà di costringersi in sei in un paio di stanze. Le estati della mia adolescenza trascorrevano tutte, negli anni Sessanta, sotto l’ombra del campanile di quel paesino di ‘montagnini’. Così li chiamavano i ‘foresti’-il politically correct non essendo contemplato allora da nessuna delle parti-per le evidenti diversità, soprattutto nel vestire e nel parlare: noi l’italiano e loro un dialetto stretto, duro e serrato di cui niente capivamo. Ci avevo impiegato un bel po’ di tempo per tradurre quel misterioso termine ‘gugnin’, che mio padre, di natali piemontesi, mi aveva finalmente un giorno rivelato nel suo significato: bambino. Mi si aprì un mondo nel quale mi sembrava di aver cominciato, attraverso quella semplice parola, a poter entrare. Ma a dividere noi e loro, i locali, ci stava molto altro: contribuivano anche le gonne più corte delle ragazze, l’esuberanza dei maschietti invasori- giocavano a pallone in piazza tirando cannonate sul portone della chiesa durante le funzioni- e quella dei più anziani giocatori di bocce, che  sparavano a loro volta  le pesanti palle sul campo adiacente la chiesa, ma ancor più pesanti bestemmie in aria.
Persino i primi, ampi pantaloni indossati dalle ragazzine lì facevano scandalo. Ci si era messo di mezzo anche il Don a citare santa Maria Goretti, contrapponendola -come esempio in positivo- all’impudenza dei  nostri jeans e della camicetta di pizzo bianco, peraltro a maniche lunghe e sopra una più che coprente canotta, di chi aveva partecipato alla messa. Mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa? Macché. Era stato proprio ingiusto prendersela con una ragazzina che frequentava messa tutti i giorni, a quindici anni, anziché andare a spasso con gli amici per l’intero pomeriggio. Il Don, caro amico di papà e della nostra famiglia, quella volta si era sbagliato di brutto. Saranno stati gli occhiali che forse non controllava da anni, anche per mancanza di soldi, perché i montagnini non si mostravano generosi nelle offerte domenicali, sarà stata una pruderie da parroco che si sentiva a volte isolato dal mondo… Lo guardai male quando uscii sul sagrato, e riferii tutto a casa la sera. Non gliela perdonavo proprio quell’ingiusta accusa che mi aveva profondamente offesa. Oggi ricordo lui e la madre con nostalgia. E il suo grande dolore- e della amabile sorella Rosy- per il nipote, morto giovane in un tragico incidente stradale. Lasciata la valle in età avanzata, venne da Brescia con la madre a trovarci un paio di volte a Varese, a ricambiare le visite di mio padre e conoscere i nuovi arrivati della famiglia. Portarono un ampio scialle rosa ricamato, che ancora conserviamo, nel quale avremmo avvolto spesso le bambine.
La casa parrocchiale di Vocogno era a poca distanza sia dalla prima che dalla seconda casa che affittammo. La prima era ancor più vicina al campanile, che incombeva sopra le nostre teste, e alla chiesa di cui intravedevamo i muri della parte absidale. Era sue due piani, con in mezzo la scala in granito. Il piano terra, ad altezza del vicolo, aveva un’ampia cucina sulla destra, un po’ buia la sera, con il pavimento in pietra e un grande camino. In uno spazio più piccolo si apriva la ghiacciaia (i frigoriferi in valle non erano arrivati certo in tutte le case) dove la mamma conservava il latte, e il burro a bagno nell’ acqua per mantenerlo fresco e  sodo.
Di fronte alla cucina era il salottino col tavolo, le sedie, e le comode poltroncine dove facevamo accomodare gli ospiti, anche quelli che avevano voglia di venirci a trovare fin lassù. Non c’era naturalmente la televisione. Era stata la radio ad annunciarci in anni diversi la tragica fine di Marilyn Monroe, nel 1962, il parto travagliato di Jacqueline Kennedy e la morte del suo bambino nell’agosto del ’63, le canzoni di Nico Fidenco  e Los Marcellos Ferial  nel ’64. Troneggiava su di un tavolino, all’eventuale posto del televisore, un librone di pelle chiara con le scritte in oro. Conteneva tra numerosi nomi di caduti in guerra, mi pare fosse la campagna di Etiopia, anche quello di un figlio dell’ anziana proprietaria della casa, Oscar. Lo conoscevamo perché ci guardava serio, in uniforme, dal ritratto appeso al muro. Era una presenza imprescindibile, che dava il senso della severità, ma anche del dovere e dell’esempio della famiglia. Il peso di un ricordo che aleggiava per sempre in quella casa che mi era piaciuta per la sua storia, per il suo odore buono di legna bruciata e di cera.
Il clima più austero del piano terra, che mi induceva a riflettere, cambiava al piano superiore dove erano le tre camere. Due, luminose e inondate di sole per buona parte della giornata, guardavano verso le montagne: da quella che condividevo con la sorella maggiore vedevo il profilo del Pizzo Ragno, che di lì a qualche anno avrei risalito con soddisfazione, e anche un po’ perigliosamente, fino alla cima, dopo tanti insuccessi dovuti alla mia inesperienza per le escursioni. Il cielo sempre azzurro, la linea verde della montagna e l’aria fina che entrava dalle finestre davano il piacere di un vivere leggero, pulito e salubre. Dall’altra parte della stretta strada si scorgeva invece la facciata a ponente della casa rosa affittata per l’estate da una famiglia più numerosa della nostra. Il vero patriarca pareva essere un noto professore universitario, un sacerdote alto e magro, dall’aria ascetica, che raccoglieva attorno a sé la famiglia della sorella coi numerosi nipoti. All’ora di pranzo si sentiva suonare la campanella che chiamava tutti a tavola.
Il prelato, solito a regalare caramelle ogni giorno ai bambini più piccoli che incontrava davanti alla chiesa, era afflitto da una malattia che gli comportava un evidente tremolio delle mani. Quando celebrava messa, alleviando il parroco dai numerosi impegni, i fedeli seguivano con compunzione e trepidazione la difficoltà di quelle sue dita che trattenevano a stento la particola. Ma era poi molto attesa la sua dotta predica di medievista su San Rocco. Il santo Rocco, protettore della parrocchia, si celebrava il 16 agosto, quando la bella statua lignea- il ginocchio ammalorato dalla peste e il cane amico con il pane in bocca per gli  ammalati poveri- circolava in paese, sotto il baldacchino rosso, per gli indigeni e per i forestieri senza distinzione. Nel pomeriggio la riffa con l’offerta dei doni  radunava di nuovo tutti nella piazzetta del paese.
Inutile dire che la voce del campanile, a tutte le ore, accompagnava le notti e i giorni. Mi piaceva, e mi piace ancora, il suono forte delle campane che scandisce le ore, mi pareva allora un privilegio che nella casa di Varese non avevo mai avuto così ravvicinato. E oggi è un suono che scandisce il ricordo.
Si dovette poi cambiare casa dopo qualche anno. Trovammo subito a poca distanza da lì.
Questa volta la novità era una mansarda al piano superiore dove dormivamo noi ragazze. Niente di lussuoso, anzi molto alla buona, ma dal terrazzino la vista era impagabile e al fondo della valle correvano il trenino delle Centovalli e la striscia verdeazzurra del Melezzo. Lo spettacolo incantava e il ristretto spazio del terrazzino consentiva la vista ravvicinata e profonda del campanile e un angolo dove potevo soddisfare in solitudine ogni voglia di lettura. Leggevo le riviste femminili giratemi da alcune amiche, mi divertivano la posta ironica di Donna Letizia e i lunghi racconti d’amore di autori vari.  Leggevo poi i romanzi portati da casa. Avevo cominciato con La Noia di Moravia, e quella prima volta poco ci avevo capito, lo lessi infatti e  rilessi. Però la scrittura, pulita e avvincente, mi catturò per sempre e divenni sua lettrice assidua. Un altro libro indimenticabile, credo mi avesse in partenza colpito il titolo, fu La costanza della ragione, che mi trasportò nell’universo di Vasco Pratolini, nella sua Toscana  e  in un’atmosfera cosi diversa dalla mia quotidianità. Così lessi di lì a poco anche Le ragazze di San Frediano, e di Elio Vittorini Il Garofano rosso. Ricordo con piacere la scoperta di Giorgio Bassani con Il giardino dei Finzi Contini, e altri libri di autori che avrei imparato a conoscere meglio come Alba de Céspedes, autrice de La bambolona, di cui avrei letto solo in seguito il precedente Quaderno Proibito.
Altri libri comperavo a  Santa Maria Maggiore, il libraio era tra i partecipanti al  Premio Bancarella. Ci andavo spesso anche perché a Santa Maria frequentavo l’Istituto Rosmini.
La mia avversione per la matematica mi obbligava a scendere a piedi un paio di volte la settimana, tra i prati di Prestinone, paese confinante con Vocogno, per prendere lezioni dagli insegnanti che seguivano i collegiali durante l’estate. Mi accompagnava a  volte Maurizio, mio fratello, afflitto da analogo problema. Al Rosmini potemmo stringere però entrambi nuove amicizie, che sono rimaste nel tempo.
Quei libri e quelle frequentazioni hanno accompagnato dunque molte ore delle mie ultime estati da ragazza spensierata. Ma frequentavo anche, con mia sorella, una compagnia di bravi coetanei. Si facevano passeggiate in gruppo di giorno e di sera, tassativamente non oltre le ventidue.
Si azzardò a volte qualche lento nelle case di qualcuno di loro, come da Rossella e Rita, ospiti dei nonni. Ma generalmente non eravamo graditi. E si doveva sloggiare presto, per non disturbare il vicinato in allarme e non dover affrontare a casa i rimbrotti del ritardo.
Ricordo i visi e i nomi di tutti. Erano Clara, Anita, Adele e Giovanna, Franca e Rossella, Rita, Erminia, Enrico e i due Antonio, Domenico, e Remigio, Marco, Mario, Carlo, Franco, Piermario, Giorgio, Sergio, Aldo e Giampiero, Giovanni, i gemelli Ottavio e Vittorio.
Alcuni di loro, come l’Antonio dagli occhi azzurri- fu il primo- e Sergio, anni dopo, se ne andarono ancora giovani per sempre. Se ne andò in fretta tra i ragazzi del paese anche Giovannino, il figlio del fornaio, che aveva lavorato fin da bambino e, per i pesi sopportati, s’era ingobbito senza rimedio. A noi faceva venire il rimorso per quella esistenza.
Altri, più fortunati, si sono affermati nella vita, ma soprattutto l’hanno vissuta circondati dallo   stesso affetto che più o meno tutti avevamo avuto in famiglia, in quegli anni sereni.
Sono ritornata di quando in quando, per periodi brevi o furtive passeggiate, nella Valle dei Pittori. Oggi molto è cambiato. Ho visto naturalmente più case e meno prati. Qualcuno, ho saputo, è rimasto lì per sempre. Chi aveva radici di famiglia non le ha tradite, e torna spesso sotto gli intatti campanili di Vocogno, Prestinone, Craveggia, o Toceno. Ma la maggior parte di noi non si sono più rivisti.
I ricordi sono però infiniti, hanno la stessa malinconica fragranza degli odori, come quello del latte di giornata lasciato alla porta, o quello del fieno appena tagliato. E restano sempre dentro di noi.
Rivedo gli occhi e i sorrisi degli amici, ripenso all’affetto e all’intransigenza austera, in fondo ingenua, del Don. Soprattutto alla serenità di mia madre in quelle estati così diverse dalla più densa vita di città, al mio piacere di stare spesso con lei, libere entrambe dagli impegni.
Un piacere però questo che sarebbe stato falciato, da un giorno all’altro, di lì a pochi anni, come l’erba dei prati che non ho più ritrovato.

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