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Politica

BATTERE GLI “ANTI”

ROMOLO VITELLI - 28/04/2012

Gli ultimi sondaggi danno in grande ascesa il movimento di Grillo e dicono che è probabile un fortissimo astensionismo alle prossime elezioni. Il malcontento che si registra nel Paese si chiama antipolitica. Ma questa degenerazione della politica non è stata prodotta dagli scandali e dalle vicende giudiziarie che hanno investito recentemente il tesoriere Lusi, la Lega, il Pirellone, Lavitola. Questi tristi eventi sono solo le ultime gocce che hanno fatto traboccare un vaso colmo di malessere e diffidenza verso la classe dirigente del paese le cui origini si perdono nel tempo. Forse mai, nella lunga e complicata parabola della Repubblica, il distacco tra le persone e la politica è parso così ampio, motivato, voluto. È allarme rosso per i partiti. La scadenza elettorale si avvicina, e non solo quella delle amministrative, mentre la fiducia dei cittadini in coloro cui tocca rappresentarli è ai minimi storici. Non serve consultare i sondaggi sul grado di fiducia nel Parlamento e nei parlamentari; basta orecchiare le battute, i giudizi, ripetuti in giro, per sentire un’insofferenza crescente verso i privilegi vissuti come abusi. Ovviamente il clima non dice tutto, nel senso che dietro l’irritazione di molti vi è una sfiducia radicale nei partiti e in fondo nella politica tout court.

“Una volta – scrive Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Corte costituzionale – quando scoppiava uno scandalo in un partito, gli altri quasi si rallegravano. Oggi non è più così. Ora ogni scandalo, per l’opinione pubblica, riguarda l’intero sistema politico. Tutti uguali! Ciò che succede in un partito, è imputato a tutti i partiti. Una specie di responsabilità oggettiva di sistema. Nessuno è immune dal discredito”. Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ben consapevole che gli ultimi scandali, dalla Margherita alla Lega, possono travolgere il Paese, vanificando la fase di “disintossicazione” che l’esecutivo Monti avrebbe dovuto garantire, è tornato in campo a difendere la sana politica. “I partiti – ha detto il capo dello Stato – non sono il regno del male, del calcolo particolaristico e della corruzione”. Insomma: “Il marcio ha sempre potuto manifestarsi, e sempre si deve estirpare: ma anche quando sembra diffondersi e farsi soffocante, non dimentichiamo tutti gli esempi passati e presenti di onestà e serietà politica, di personale disinteresse, di applicazione appassionata ai problemi della comunità. Guai a fare di tutte le erbe un fascio, a demonizzare i partiti, a rifiutare la politica”.

Nei giorni scorsi, dalle colonne dell’Unità, Alfredo Reichlin ha detto sostanzialmente la stessa cosa: stiamo attenti a criticare i partiti come se fossero tutti uguali, i partiti sono essenziali per la democrazia. Certamente hanno ragione il Presidente Napolitano e Reichlin: i partiti non sono tutti uguali; è necessario però distinguere altrimenti bisognerà prepararsi al funerale della politica. In tutti i partiti ci sono uomini che si sono opposti e s’oppongono alla degenerazione e al malaffare, svolgendo un corretto servizio pubblico; mentre ce ne sono altri che consapevolmente hanno lavorato per il degrado, vivendo di politica, e facendone non un servizio, ma una professione: un’attività che controlla e gestisce risorse, che assicura reddito, status e spesso privilegi.

La politica è oggi invisa, e cresce l’antipolitica. Però è bene sapere che l’antipolitica non è l’antidoto alla cattiva politica. Con la crisi dei partiti e la estenuazione delle ideologie e delle utopie, e con l’antipolitica montante c’è il rischio che imbonitori e pifferai-taumaturghi – l’ultimo è stato Berlusconi – possano riprendersi la scena per molti anni. Ed è quello che a mio giudizio sta tentando l’imbonitore Grillo, sfruttando abilmente la crisi dei partiti e della politica.

Ma attenzione: “I suoi obiettivi – dice Antonio Gibelli sul Corriere di sabato 21 aprile – non sono affatto in sé privi di ragionevolezza e di fondatezza. La critica della corruzione, l’idea del controllo dal basso dei processi decisionali, dei beni comuni compresi quelli dell’etere e del web, sono cose sensate e non a caso attraggono schiere di giovani che si sono formati nel nuovo mondo dominato dalle tecnologie informatiche, che percepiscono il vecchio ceto politico come distante mille miglia. Qual è allora il punto? Che Grillo resta prigioniero della sua visione apolitica e palingenetica, congelando in un ghetto le forze che evoca. Il suo discorso manicheo – di qua noi, di là tutti loro – può aggravare la crisi in atto della politica, non può fermarla. Ne è un’espressione non un antidoto.

Egli sembra coltivare in sostanza l’idea di una democrazia senza partiti, in cui il grande comunicatore sostituisce e rende superflue le forme della partecipazione organizzata (ma non era quello che ha tentato di fare Berlusconi?). Ecco perché Grillo non è certo il male, ma non può essere nemmeno la via d’uscita, a dispetto della buona fede di molti dei suoi seguaci. Offre uno sfogo, non una speranza”.

I movimenti antipolitici denunciano una malattia che senz’altro corrode dal di dentro la democrazia, ma non hanno la forza e neanche il desiderio di governare. Di questi atteggiamenti antipolitici la politica porta gran parte della responsabilità, perché l’antipolitica nasce sempre dagli errori della politica. E il populismo, che dell’antipolitica è la degenerazione più frequente, ne sfrutta abilmente i sentimenti per diventare, esso stesso, la politica dell’antipolitica. Ed è quello che abbiamo visto nell’era berlusconiana le cui macerie ci stanno cadendo ancora addosso.

La critica ai partiti è antipolitica, se è indirizzata a farne a meno. È altamente politica, se è rivolta a chiedere loro di rigenerarsi affinché si scuotano, si aprano, congedino coloro che non hanno più nulla da dire, diano un segno ideale della loro presenza, ritornando a essere attrattivi e a ritrovare le ragioni di un sano, onesto trasparente e corretto impegno politico. I partiti che non apprendono dai propri errori e si trasformano in ristrette consorterie, a null’altro interessate se non alla perpetuazione del proprio potere contribuiscono ad allontanare i giovani dalla politica.

Sorgono a questo punto alcuni interrogativi di fondo: può la politica rigenerarsi? possono i partiti riacquistare credibilità, riuscire a colmare il fossato tra la politica e il paese, ridando una speranza ai giovani?

Certo nuovi dirigenti onesti, con un ottimo programma di cose da fare possono senz’altro contribuire alla rinascita della politica, però la politica non è fatta solo di idee e di programmi e di dirigenti, ma anche di passioni, le quali hanno bisogno di ideali e valori, e della capacità di lottare per essi. Il filosofo Georg W. Hegel ha ammonito: “Nulla al mondo è stato fatto senza passione”. Dello stesso avviso è l’economista, sociologo, filosofo e storico tedesco Max Weber per il quale, nell’epoca del disincanto, la passione resta la qualità principale, poiché – dice – “senza profonda, ardente passione, non si da impegno politico”.

Ma accanto a queste qualità essenziali per una corretta politica bisognerà aggiungere il ruolo fondamentale che la speranza può giocare per rimotivare le passioni sopite. Ed è quello che ci ha voluto ricordare tra l’altro papa Ratzinger che, come è noto, nel 2007 ha voluto dedicare la sua seconda enciclica, la “Spe salvi”, al tema della speranza. In essa si legge: “Ci troviamo [oggi] nuovamente davanti alla domanda: che cosa possiamo sperare? È necessaria un’autocritica dell’età moderna in dialogo col cristianesimo e con la sua concezione della speranza. In un tale dialogo anche i cristiani, nel contesto delle loro conoscenze e delle loro esperienze, devono imparare nuovamente in che cosa consista veramente la loro speranza, che cosa abbiano da offrire al mondo e che cosa invece non possano offrire.

Solo se la politica, appiattita nel presente, saprà dare una speranza ai giovani e farli tornare nuovamente a sognare e saprà indicare loro una nuova gerarchie di valori ritornerà egemone nella vita pubblica.

È l’insegnamento-ammonimento che emerge dal racconto dell’antropologo, psicologo e sociologo francese Gustave Le Bon, il padre della psicologia delle folle, che tutti quelli che si dedicano alla politica dovrebbero osservare. Scrive a tal proposito il filosofo Remo Bodei: “Le Bon racconta un ricordo di infanzia che ha indelebilmente forgiato il suo pensiero. Giunse nel suo paese un imbonitore avvolto in vesti dorate e accompagnato da un corteo di suonatori dalle scintillanti armature. Novello dottor Dulcamara, vendeva a poco prezzo un elisir, che non si limitava a guarire tutte le malattie, ma era anche capace di assicurare la felicità ai suoi acquirenti. Il farmacista locale, uomo “segaligno, magro e severo,” ebbe un bel dire che si trattava di una semplice mistura di acqua e zucchero: “Ma prego, che valore potevano avere le dicerie di questo bottegaio geloso, contro le affermazioni di un mago coperto d’oro, dietro il quale imponenti guerrieri suonavano i corni? (…) Quel che il mago vendeva era l’elemento immateriale che guida il mondo o che non può morire: la speranza. I preti di tutti i culti, i politici di tutti i tempi, hanno mai venduto qualcosa di diverso?”

Da adulto, Le Bon crede di essersi reso conto del perché le arti dell’imbonitore e dello spacciatore di false promesse prevalgono spesso sulla sobria argomentazione razionale del farmacista: chi fa leva sui desideri più profondi degli uomini ha sempre la meglio sui penitenziali sostenitori del principio di realtà e sugli aridi difensori di una ragione sospettosa e arcigna.

Eppure, sebbene sia costitutivamente esposta all’incertezza e al rischio, la speranza deve poter “ingranare” nella realtà, trovare nelle sue dinamiche addentellati al proprio avverarsi. La si può utilizzare, secondo i precetti di Plutarco, manovrando, come se fossero vele, le nostre inclinazioni in rapporto alle nostre possibilità. Del resto, la politica della sinistra è stata tradizionalmente innervata da speranze suscitate e alimentate dalle aspettative di mutamenti profondi, dalla previsione del sorgere di un “mondo nuovo” e di un “uomo nuovo”, entrambi rigenerati. I suoi valori sono, infatti, prevalentemente orientati verso il futuro, la libertà e la giustizia.

E questo non dovrebbero mai dimenticarlo almeno le forze sane e oneste del centrosinistra, se vogliono ridare una speranza agli italiani.

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