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Cultura

I GESUITI INTERPRETI DI MACHIAVELLI

ROMOLO VITELLI - 23/11/2012

Giorni fa ero nella sala d’aspetto della stazione ferroviaria di Varese, in attesa del treno per Milano. Accanto a me era seduta un’adolescente tutta presa a leggere e a recitare in silenzio degli appunti molto ordinati. Le ho chiesto che stesse studiando e lei mi ha risposto che stava ripassando Machiavelli perché l’indomani l’insegnante l’avrebbe interrogata. Le ho domandato che cosa l’avesse colpita di più dell’autore studiato e la studentessa mi ha risposto: “L’affermazione: Il fine giustifica i mezzi”.

“Sai, le ho detto, che quella frase, l’autore de Il Principe non l’ha mai pronunciata né appare nei suoi scritti, perlomeno nel significato con cui è utilizzato dal senso comune?
Sono stati i gesuiti, che non amavano Machiavelli, ad elaborarla come sintesi di tutto il suo pensiero. Il grande pensatore fiorentino fonda la politica come scienza autonoma e distinta dalla morale in cui il rapporto “fini – mezzi” va inteso nel senso che in politica non valgono predicazioni morali e nessun “fine” anche quello moralmente più alto può realizzarsi se non è fornito di “mezzi” adeguati e coerenti. Per Machiavelli il fulcro dell’attività politica è costituito dalla ricerca di ciò che è utile per l’insieme dello Stato (che coincide con l’utile del principe e dell’insieme dei sudditi) e il terreno d’indagine della politica è la “verità effettuale della cosa” e non “la immaginazione di essa”.

Ne deriva un radicale capovolgimento del rapporto tra politica e morale; il giudizio sugli atti del principe non dipende dalla loro corrispondenza ad astratte norme, ma dalla loro congruità a produrre la sicurezza dello Stato.

Che vuol dire Machiavelli con tutto ciò? Che per risolvere un problema politico occorrono mezzi congrui, adeguati, funzionali cioè alla realizzazione di un fine.

Per intenderci, facendo un discorso “in soldoni” se devo operare uno di cataratta, non uso paradossalmente la fiamma ossidrica, ma il laser, cioè un mezzo che raggiunge lo scopo, il fine, senza essere invasivo; se devo asportare un tumore allo stomaco non uso come mezzo l’aspirina, ma il bisturi per rimuoverlo.

 Dopo aver sentito queste considerazioni la ragazza è rimasta in silenzio, ma abbastanza sorpresa dalle mie spiegazioni.

Le ho poi chiesto se avessero trattato il pensatore solo riguardo al suo tempo o anche in relazione con l’oggi, magari per analizzare le cause dei ritardi nell’unificazione del nostro Paese; e se avessero utilizzato o meno strumenti multimediali DVD, Internet, quotidiani ecc. per rendere l’ apprendimento più accattivante, più piacevole e più formativo.

Mi ha risposto che l’insegnante aveva fatto un paio di lezioni frontali con il manuale e loro avevano preso appunti, e che l’autore era stato trattato “solo in relazione con il suo tempo” e senza l’ausilio di mezzi multimediali. Ho approfittato per dirle che in Italia nel 2013, in occasione dei 500 anni dalla composizione originaria de “Il Principe”, l’opera e il suo autore saranno ricordati con convegni, mostre, rappresentazioni teatrali, percorsi storici, proiezioni di film d’argomento rinascimentale, collegamenti informatici e siti telematici. Dopo averle augurato un affettuoso “In bocca al lupo” per l’interrogazione dell’indomani, sono salito sul treno ed ho continuato a pensare al colloquio appena avuto con lei. Per la verità non mi è sembrata molto entusiasta in genere dello studio fatto di questo grande autore classico che è Machiavelli. Ho avuto la netta sensazione che per la studentessa il pensatore era stato solo materia d’interrogazione e basta.

A me, che ho dedicato tante energie a far amare le humanae litterae agli allievi, l’aver dovuto constatare per l’ennesima volta la distanza che separa le giovani generazioni d’oggi dagli studi classici, ha lasciato l’amaro in bocca e alcuni interrogativi. Quali? Beh, ad esempio: “Da dove nasce, anche se non generalizzato, questo rifiuto o se si vuole questa indifferenza dei giovani per la letteratura? “E ancora, “Di che utilità può essere lo studio di Machiavelli, un autore cioè del ‘500, per un giovane del Terzo Millennio? Perché studiarlo? Come presentarlo ai giovani d’oggi, immersi nel Web e nella rete?”

Il distacco dei giovani dalla letteratura non è cosa recente, ma ha origini antiche, e per ciò che concerne gli ultimi tempi, ha motivazioni che attengono ai mutamenti intervenuti nella nostra società globalizzata e multimediale. Senza andare molto indietro – ricorda Italo Lana in “Possiamo ancora considerarci eredi dei classici?- il poeta e scrittore Mario Luzi – già nel 1968, riflettendo una prima volta sulla ridotta funzione degli scrittori classici nel mondo d’oggi partiva dalla constatazione che il nostro tempo era “un tempo non omogeneo, per il quale è saltata la continuità delle tradizioni. I classici – scriveva – non costituiscono più una tradizione oggettiva con cui confrontarsi”. Qualche anno prima – Carlo Bo, storico e critico letterario, si era domandato: “Possiamo ancora considerarci eredi dei classici?”. E Bo rispondeva: “Sono mutate le condizioni dell’esistenza; è diverso il significato che noi diamo a questo enorme patrimonio (il patrimonio dei classici): non ci sentiamo più eredi di nessuno, viviamo in un deserto e ciò che fino a ieri era considerato come nutrimento vitale lo cataloghiamo nel libro delle droghe e delle illusioni”.

 C’è da dire però che rispetto alle considerazioni svolte da Luzi e Bo la distanza tra la cultura classica e quella tecnologica si è acuita e complicata ulteriormente.

 “Negli ultimi 10-20 anni”- dice il prof. Brevini – “si è verificata una discontinuità, una frattura epocale in termini di paradigmi culturali. I giovani oggi hanno molto meno famigliarità con la cultura tradizionale e più dimestichezza con la cultura tecnologica: capiscono più un film che un libro. Non sono degli imbecilli sono inseriti in una cultura diversa, più mobile e multimediale rispetto alla nostra che era prevalentemente grafica: si tratta di trovare un corretto rapporto tra la cultura rinnovata e gramsciana e senechiana e la cultura tecnologica per salvare quello che c’è di buono nell’antico rivisitato e collegato alla nuova cultura più consona al terzo Millennio”.

Bisogna partire da questa mutata realtà se si vuole tentare di riaccostare i giovani alla letteratura.

Ma ora veniamo ai nostri interrogativi. Per l’economia della mia riflessione affronterò però solo il secondo e cioè: “Di che utilità può essere lo studio di Machiavelli, un autore cioè del ‘500, per un giovane del Terzo Millennio? Perché studiarlo?”.

L’opera di Machiavelli, se ben meditata e compresa, oggi, nel centocinquantesimo della formazione dello stato unitario, può fornire una spiegazione di quello che sta succedendo nel nostro Paese e del perché dei nostri ritardi nella costituzione del regno d’Italia e può darci una spiegazione dei nostri difetti e del rischio che corriamo di perdere ogni ruolo internazionale.

Machiavelli, com’è noto, quando era stato cancelliere e segretario della Repubblica fiorentina, aveva viaggiato molto all’estero ed aveva visto la politica nelle sue manifestazioni più crudeli e violente ed aveva constatato che mentre in Europa, la politica corretta stava creando lo Stato moderno, in Italia i signorotti corrotti erano impegnati a combattersi tra loro e i pontefici non si preoccupavano di favorire l’unione degli Stati della penisola. Nella fase più delicata della lotta per il predominio in Europa, L’Italia debole e divisa, diventa preda delle potenze dominanti, mentre il papato si afferma come il principale potere politico della Penisola, capace di im­pedire a ogni altro signore o sovrano di unificare il paese, non avendo comunque forza sufficiente per farlo direttamente, come ci ricorda Machiavelli nei Discorsi sopra la prima Deca di Tifo Livio (1.12). Scrive a tal proposito: “Non essendo, adunque, stata la Chiesa potente da poter occupare la Italia, né avendo permesso che un altro la occupi, è stata cagione che la non è potuta venire sotto uno capo, ma è stata sotto più principi e signori, da’ quali è nata tanta disunione e tanta debolezza, che la si è condotta a essere stata preda, non solamente de’ barbari potenti, ma di qualunque l’assalta.”

“Comprese” – dice Sergio Romano – nel bel saggio:“Il Principe è un europeista” (Corriere, 4.11.2012) “prima di altri che l’Italia, in queste condizioni, sarebbe stata spinta ai margini dell’Europa e sarebbe diventata, come avvenne nel 1494, la terra su cui altri avrebbero soddisfatto le loro ambizioni (…) “Lascio al lettore” – aggiunge – “decidere se fra l’epoca di Machiavelli e la nostra corra qualche analogia. Mi limito a osservare che questo Stato apparentemente unitario è un mosaico di lobby, corporazioni, patriottismi municipali, irresponsabilità regionali e sodalizi più o meno criminali: tutti decisi a difendere il loro particulare con comportamenti meno sanguinosi di quelli dell’epoca di Machiavelli, ma non meno corrotti. E osservo che in questo momento, come allora, il dilemma è fondamentalmente lo stesso: tenere il passo con i maggiori Paesi europei o precipitare nelle periferia del continente. Esiste oggi un Machiavelli lucidamente consapevole del pericolo? Esiste, fra Palazzo Chigi e il Quirinale, qualcuno pronto a raccogliere la sfida? Nei momenti di minore pessimismo ho l’impressione che gli inquilini dei due palazzi non abbiano dimenticato la loro lettura del Principe.”

Mi pare che Sergio Romano offra con le sue le considerazioni un ottimo stimolo e valide ragioni alla lettura del “Principe” a cinquecento anni dalla sua elaborazione.

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