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Noterelle

AMARE LA CITTÀ

EMILIO CORBETTA - 21/05/2021

piazzaI varesini amano la loro città? Loro dicono di sì e probabilmente è vero, ma naturalmente non tutti la amano allo stesso modo. E cosa vuol dire amare la propria città? La città in sé: le sue case, le sue vie, le sue chiese antiche, i suoi palazzi, il paesaggio in cui è collocata, le montagne del circondario, gli azzurri laghi che la imperlano? Si amano anche i suoi abitanti? Ma dove sono gli abitanti di Varese, vien da chiederci.

Gli abitanti di Varese, come quelli delle altre città, sono in continua mutazione. Ero un bimbo e c’era la guerra. La maestra ci insegnava che Varese aveva sette colli come Roma, aveva trenta mila abitanti, era una città dove si pativa la fame e si doveva faticosamente lavorare. In quei tempi tutti si aveva fame ed il cibo veniva razionato con la “tessera annonaria”. Ma tutta l’Italia era martoriata così.

Mi sono appena capitate sotto gli occhi fotografie di quei tempi ed è impressionante constatare quanto si era magri. Varese allora aveva nel suo territorio parecchie fabbriche, che aumentarono poi finita la guerra tanto che quelli che ci lavoravano risultavano numericamente insufficienti, per cui arrivarono da altre regioni molte famiglie: il numero degli abitanti aumentò ma anche le caratteristiche della popolazione cambiarono. E chi era appena giunto amava Varese? Molti sì, mentre molti altri avevano profonda nostalgia delle terre natie appena abbandonate. Ricordo un mio amico, che ci ha appena lasciato quasi centenario, che mi raccontava: “Il treno aveva appena lasciato Gazzada e dal finestrino ho visto il lago, i monti d’un verde brillante, con incastonate le casette e il Monte Rosa là in fondo: è stato un colpo di fulmine, mi sono innamorato di Varese ” e ha passato qui tutta la sua vita. Lui era un toscanaccio, forse ateo, sicuramente mangia preti – che però rispettava profondamente- mentre noi varesotti siamo burberi montanari, poco affabili, frequentatori di Messe ma critici nei confronti dei preti, specialmente se predicano concetti diversi dai nostri pensieri.

Intanto Varese con l’apporto degli immigrati ha raggiunto gli ottantamila abitanti, ma non ha più molte fabbriche importanti, non inquina più le sue acque e molti giovani se ne vanno, sostituiti adesso da altri numerosi migranti con culture completamente diverse e per noi nuove, difficili da capire.

Amano Varese? Non so. Riescono a vedere il paesaggio con la carica poetica del mio amico? Hanno necessità di vita molto diverse dalle nostre, nelle loro viscere c’è la fame atavica di generazioni. Hanno avuto dolori, sofferenze, pianti diversi dai nostri del passato, hanno avuto ed hanno guerre diverse dalle nostre. Cosa vogliono, cosa sperano di trovare qui? C’è la capacità di amare il luogo dove ricominciare a vivere? È giusto porci questi interrogativi, anche se è molto difficile dare risposte giuste.

Appena hanno difficoltà nuove se ne vanno, cercano un poco di benessere in altri siti, ma hanno le potenzialità per raggiungerlo? E noi abbiamo la capacità, la potenzialità di trasformare la loro grezza possibilità di lavoro in mano d’opera utile alle esigenze tecnologiche necessarie per i nostri livelli di lavoro?

Esperienze nostre e fatti avvenuti in altre nazioni dicono che spesso questi nuovi immigrati cadono nella tentazione di usare la violenza, di fare attentati. Soluzione che non risolve i problemi, anzi fa aumentare le tensioni e loro non si rendono conto di essere controllabili.

Il problema di base è l’incapacità reciproca di dialogare. In noi sorge il timore di essere imbrogliati, sfruttati, ma anche loro spesso sono costretti a masticare molto amaro: sentimento reciproco. Ci troviamo di fronte al grandissimo problema della migrazione – emigrazione e immigrazione – che può restare limitato alla regione ma diventa ben più drammatico e preoccupante quando ha carattere internazionale.

Viene da chiederci: quanti sono i varesini andati a lavorare all’estero? Quanti sono andati ad abitare nei paesi limitrofi? Quanti affollano i treni dei pendolari o ingolfano quotidianamente le autostrade dell’alta Lombardia? E nel contempo: quanti ucraini hanno la nostra cittadinanza? Quanti sud americani? Quanti africani? E quanti sono i sud-sahariani che sono ora in Libia in attesa di poter attraversare il Mediterraneo per venire da noi a rischio della vita? E quanti i Siriani che penano nei campi di raccolta nelle regioni della ex Iugoslavia?

Il genere umano è sempre stato migratore, fin dalle sue origini, fin da quando viveva di caccia e raccolta, ma si muoveva lentamente. Ora invece grazie alle attuali tecnologie si muove velocemente ma poi non trova la possibilità di essere adeguatamente ospitato nelle terre dove giunge e che di conseguenza non può amare. La terra dove ha avuto origine è là, lontana migliaia di miglia, inospitale, traditrice, che gronda sangue.

Ritorno al tema: saper amare Varese, o questa dolorosa umanità? E noi che risultiamo incapaci di far nascere figli che potrebbero amare le nostre città (ho appena sentito dire che ogni anno in Italia è come se scomparisse una città di duecentomila abitanti) saremo capaci di imparare ad ospitare questi poveracci che emigrano in ricerca disperata di luoghi dove poter vivere con le loro famiglie? Interrogativo immenso!

 

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