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Storia

DON PIERO FOLLI, UN GIGANTE DELLA CHIESA

FRANCO GIANNANTONI - 22/06/2012

Prima di spirare l’8 marzo 1948, benedisse i presenti al letto di morte, col segno della Croce del Cristo partigiano-combattente, ebbe la forza ancora di alzare lo sguardo verso i suoi amati parrocchiani e, con un sorriso ironico, un tratto della sua spiccata personalità, pronunciò una frase che è rimasta scolpita nella memoria di Voldomino, il paesino di millesettecento anime, sulle collina di Luino, di cui era parroco dal 1923: “Che volete di più, avete anche la benedizione di un vecchio avanzo di galera!”.

Proprio così. Don Piero Folli, sessantasette anni, un gigante della Chiesa, quella povera, senza anelli preziosi, crocefissi d’oro e paramenti scintillanti, nel fondo delle galere c’era stato per davvero, cacciato dai fascisti e dai tedeschi lungo l’arco della sua coraggiosa esistenza. L’ultima volta era avvenuto il 3 dicembre 1943.

La sua parrocchia, a un passo da piazza Piave, era diventata dopo l’8 settembre l’approdo sicuro, prima del passaggio, l’ultimo, il più delicato, il più popolato da legittime paure, verso la Svizzera. Ci arrivavano “i prigionieri di Mussolini”, statunitensi, inglesi, neozelandesi, francesi, polacchi, greci, sudafricani, fuggiti all’armistizio dai campi dove il fascismo li aveva ristretti, e poi i giovani italiani che non avevano risposto ai bandi d’arruolamento della RSI e poi ancora gli antifascisti di ogni idea politica (dal cattolico Guido Miglioli, a Piero Malvestiti, al comunista Mauro Scoccimarro alla presunta spia dell’OVRA Dino Segre, più noto come Pitigrilli) e, più numerosi, gli ebrei provenienti da tutto il Nord del Paese, intere famiglie, genitori, nonni, figli, nipoti. Un esodo biblico segnato dal terrore.

Don Folli, figlio di operai, “personalità complessa, austera, aperta, decisa”, come ebbe a scrivere don Giovanni Barbareschi della Curia Ambrosiana in un memorabile “viaggio” attraverso la Chiesa di confine, “ribelle per amore”, sensibile sin dagli anni del Seminario alle problematiche politiche e sociali “chiaramente affermando la sua solidarietà con le prime battaglie operaie del 1898”, si fece trovare puntuale al proprio posto.

Ospitò in casa, in sacrestia, nell’oratorio, nel vecchio asilo di Santa Liberata, decine e decine di fuggiaschi, diede loro riparo, cibo, vestiti, documenti, quel poco denaro di cui poteva disporre, aiutato dai suoi parrocchiani sempre schierati al suo fianco. Il sacerdote era collegato a due “reti” di soccorso, una laica ed una religiosa.

La prima era quella diretta dalla Centrale del CLNAI, con sede in una villa di Caldè, sulla sponda lombarda del lago Maggiore, dall’ingegner Giuseppe Bacciagaluppi (Joe), uomo di fiducia di Ferruccio Parri, che aveva il compito di traghettare militari e civili oltre confine; l’altra era la Delasem, un’organizzazione ebraica con sede a Berna, che aveva a Genova nella persona del cardinale Boetto il punto di riferimento. La Curia ligure inviava gruppi di ebrei in Lombardia per poi dirottarli nel Luinese, zona adatta alla fuga (montagne basse e la Tresa quasi sempre in secca) seppure i confini fossero sotto il serrato controllo della Milizia Confinaria del comandante della V Legione “Monte Bianco” Marcello Mereu (storico il suo ferale slogan rivolto ai semiti, “Maledetti figli di Giuda vi prenderemo!”) e del V Grenzwache della Guardia Doganale di Frontiera di Varese. Così faceva il CLNAI da Caldè in parte via lago e in parte per le vie montagnose affidando i fuggiaschi alle “guide”, spalloni e contrabbandieri. Voldomino era una tappa di quel tragitto di speranza.

Folli di quel congegno era un ingranaggio determinante. Non aveva mai paura, si esponeva in prima persona, si muoveva sul territorio come pochi, con quel tratto “modernista”, accusa non troppo velata, mossagli sin dagli anni ’20 da ambienti ecclesiastici tradizionalisti, seppur difeso a spada tratta dal suo Vescovo, il cardinale Ferrari. Era stato quello il tempo in cui don Folli venne bastonato, picchiato a sangue, costretto al rito odioso dell’olio di ricino, gettato in cella. Non si era mai piegato fin che, dopo un peregrinare in provincia (anche Tradate), era stato destinato ai limiti estremi della Diocesi, dove, forse, secondo alcuni avrebbe trovato pace. Andò esattamente al contrario.

Il 13 novembre 1943 don Folli era venuto a sapere che, poco lontano, sul Monte San Martino in piena Valcuvia, i nazifascisti avrebbero attaccato il colonnello Carlo Croce e la sua formazione badogliana. Non fece in tempo a trasmettere la notizia ma si impegnò la notte del 16 novembre, a battaglia conclusa, a far passare dal valico di Ponte Tresa il gruppetto di una quarantina di superstiti, Croce in testa, ospitando poi nella sua abitazione don Mario Limonta del Pontificio Istituto Missioni Estere, cappellano della banda partigiana.

I segnali a quel punto per il nemico c’erano tutti. Don Folli doveva essere catturato. Messo fuori gioco al più presto.

È il 3 dicembre quando militi della GNR e della XVI Brigata Nera con tedeschi della Guardia di Frontiera irrompono in Canonica, arrestano il parroco, lo legano all’inferriata dell’asilo di Santa Liberata e gli infliggono una durissima punizione. Sputato, oltraggiato, percosso a sangue. La casa saccheggiata. I fascisti vogliono che confessi i nomi dei “corrieri” e dei collaboratori dei passaggi in Svizzera.

Don Folli, come confiderà nel dopoguerra al senatore luinese, il democristiano Pio Alessandrini, fra i suoi più cari amici, non aprì bocca. Non c’era bisogno che lo rivelasse. Tutti ne erano certi. Per lui non “cadde” nessuno.

Trasferito al carcere di San Vittore di Milano vi rimase tre mesi in condizioni pietose fino a che il cardinale Ildefonso Schuster (come fece per altri sacerdoti del Varesotto prigionieri della RSI, da don Gianfranco Rimoldi, assistente dell’Oratorio di Varese a don Giovanni Bolgeri, parroco di Saltrio ad altri ancora) riuscì a prenderlo in consegna, trasferendolo in un Istituto religioso di Cesano Boscone e poi a Vittuone con l’impegno che non si muovesse. Una prigionia più accettabile.

Don Folli vivrà ancora tre anni, piegato nel fisico ma non nell’animo.

Il funerale fu un estremo partecipato tributo. Fiori e canti. Bandiere. Centinaia di persone giunte da ogni vallata. Una lapide a Voldomino (che nell’autunno del ’44 visse l’eccidio della banda Lazzarini) ne ricorda la figura e la missione compiuta senza paura e con impresso nel cuore il giuramento di libertà e di fede fatto nel 1904 alla prima Messa, padrini i futuri esponenti del Partito Popolare, il conte Stefano Jacini e l’avvocato Miglioli.

Il CLNAI alla sua scomparsa affermò: “Ricordiamo don Folli come persona di grande lealtà e coraggio. Ci aiutò senza risparmio di sé stesso”. L’equivalente di una medaglia al Valor Partigiano.

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