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Opinioni

LA LIBERTÀ DI DIRE

ROMOLO VITELLI - 05/10/2012

Tra i tanti avvenimenti che si sono succeduti negli ultimi tempi vorrei concentrare la mia riflessione su due di loro: il film e le vignette blasfeme su Maometto; e la condanna di Sallusti a quattordici mesi di carcere per diffamazione aggravata. Due eventi certamente lontani per le proporzioni e le conseguenze che stanno comportando, ma accomunati, a mio avviso, dalla stessa matrice da cui traggono origine: la vexata quaestio circa la libertà d’espressione e i suoi possibili limiti.

Però nella trattazione delle due questioni mi concentrerò, per l’economia dell’articolo, principalmente e primariamente su Sallusti, facendo solo in conclusione qualche considerazione a margine sulle polemiche scaturite in seguito alla diffusione del film e sulle vignette blasfeme sul Profeta Maometto.

Alessandro Sallusti, direttore del Giornale della famiglia Berlusconi, com’è noto è stato condannato a quattordici mesi di carcere per diffamazione aggravata. Da dove nasce la condanna?

 Nel febbraio del 2007 una tredicenne di Torino, una ragazzina, dall’infanzia tormentata e problematica, ricoverata in vari istituti, dove ha subito maltrattamenti vari, si accorge di essere incinta. Lei vuole abortire, ha il consenso della madre, ma non vuole informare il padre: i genitori adottivi sono separati e non vi sono buoni rapporti tra di loro. Le legge prevede l’intervento del giudice tutelare. Per questo si rivolge al magistrato Cocilovo che, valutato il caso autorizza l’aborto. La vicenda finisce sui giornali, quasi tutti raccontano la storia di questa scelta dolorosa.

La notizia del giudice che avrebbe disposto l’aborto viene anticipata il 17 febbraio 2007 da La Stampa.

Nel pomeriggio quattro dispacci dell’Agenzia Ansa (in successione sempre più precisa, alle ore 15.30, alle ore 19.56, alle 20.25 e alle 20.50) chiariscono che si è trattato di una “autorizzazione e non di un aborto coattivo voluto e deciso dal giudice”.

Il 18 febbraio 2007 tutti i principali quotidiani, tranne Libero, ricostruivano la vicenda nei suoi esatti termini: il giudice tutelare si è limitato a prendere atto della decisione di madre e figlia, sostituendo il padre per quanto concerne l’autorizzazione, come del resto prevede la legge. Quindi non ci sarebbe stata alcuna costrizione, né un provvedimento del giudice per obbligarla ad interrompere la gravidanza.

Libero, all’epoca diretto da Sallusti, nonostante la smentita dell’Ansa e di vari altri giornali, usa parole molto forti nell’accusare giudice e genitori. E con un commento firmato Dreyfus, scrive: “il magistrato ha ordinato un aborto coattivo”, la madre e il padre (che in realtà era all’oscuro di tutto) avrebbero voluto “cancellare con bello shampoo di laicità” l’amore di una giovane madre per il bimbo. Mentre il medico avrebbe “estirpato il figlio e l’ha buttato via”. Per poi concludere con un augurio: “Se ci fosse la pena di morte, se mai fosse applicabile, questo sarebbe il caso. Al padre, alla madre, al dottore e al giudice”. Frasi che non sono piaciute al magistrato Giuseppe Cocilovo, che ha presentato una denuncia per diffamazione. Ne è seguita la condanna in primo e secondo grado, con il sigillo della Cassazione. Dopo la condanna Feltri ha detto che Sallusti è stato condannato “a sua insaputa”. Prontamente il direttore Sallusti si è atteggiato a vittima della “giustizia e della magistratura politicizzata”, chiedendo l’intervento delle maggiori cariche istituzionali e la solidarietà di politici, dei colleghi e dell’Ordine dei giornalisti.

È scattata subito una solidarietà bipartisan. Abbiamo assistito anche alla straordinaria convergenza de Il Fatto Quotidiano con Il Giornale; e Travaglio ha espresso la solidarietà sua e del giornale al giornalista condannato. Nei quotidiani e nei telegiornali vi sono stati editoriali di protesta “contro le norme aberranti” e contro “Una sentenza che getta vergogna sull’Italia”.

È intervenuta subito la Fnsi con un comunicato: “La sentenza che manda in carcere Sallusti è il risultato sconvolgente di una norma orrenda del nostro codice, incompatibile con le democrazie avanzate e liberali e con i canoni delle democrazie europee. E Stefano Marcelli, presidente di ISF (Information Safety and Freedom), associazione per la libertà di stampa nel mondo ha aggiunto: “Il caso Sallusti allontana l’Italia dal mondo delle democrazie e lo avvicina a quello delle dittature.

 È inaccettabile che un giornalista per fare il suo lavoro e per le sue opinioni rischi la galera. Non è da Paese civile. Succede solo in Italia e questa è una delle ragioni principali per cui l’Italia è così in basso nelle graduatorie mondiali sulla libertà di stampa”.

C’è il rischio però che in queste “lenzuolate di solidarietà verso il direttore del Il Giornale (allora di Libero)” – dice la scrittrice Vera Veltroni – “venga confusa la libertà di falsificare i fatti e nascondere il dito dietro uno pseudonimo”. Ora finché le dichiarazioni riportate sopra sono finalizzate a cambiare la legge che punisce con il carcere il reato di diffamazione a mezzo stampa con un’altra pena che non contempli la reclusione possiamo essere senz’altro d’accordo, ma la solidarietà a Sallusti no, proprio no.

Il direttore, in questa vicenda, è indifendibile e ha pesanti responsabilità che non possono essere ammantate né nascoste sotto una solidarietà di “casta”. Sallusti, dopo la condanna, si è dimesso per protesta dal Giornale e da buon berlusconiano ha alternato vittimismo ad aggressività, arrivando sino a titolare a caratteri cubitali e in prima pagina: “Sallusti condannato dall’amico del giudice!”. Onestamente il ruolo di “vittima” a Sallusti non gli si addice proprio, perché come si suole dire non ha le physique du rôle. Del resto lo conosciamo, come esperto di pestaggi mediatici, insieme al suo amico Feltri (sospeso per mesi dall’Ordine, dopo il caso Boffo, a causa della vergognosa operazione mediatica ai danni dell’allora direttore di Avvenire, ma anche per la marea di fango riversata contro Fini a proposito della “casa di Montecarlo”).

Non si può dimenticare che da direttore di un giornale, ha permesso a Renato Farina, già agente segreto con nome in codice “Betulla”, giornalista costretto dall’Ordine a dimettersi, per gravi violazioni della legge professionale (e per questo Sallusti è stato sospeso nel 2011 per due mesi dall’Ordine) di scrivere un articolo che lo stesso autore ha ammesso pubblicamente alla Camera di essere falso.

Quindi la notizia pubblicata dal quotidiano diretto da Sallusti era falsa. Un conto è scrivere un’opinione, un conto è scrivere una falsità. Ma nonostante la condanna inflitta e le recenti tardive assunzioni di responsabilità c’è chi si richiama nonostante tutto alla libertà d’opinione e a Voltaire e alla sua celebre affermazione: “Non sono d’accordo con quello che dici, ma mi batterò sino alla morte per consentirti di dirlo”, sia per difendere Sallusti e la sua libertà d’espressione, che l’autore del filmato su Maometto e il settimanale satirico francese ‘Charlie Hebdo’ che, pubblicando nuove caricature blasfeme, ha acuito la fiammata di proteste nel mondo islamico.

Ma per ciò che concerne la questione della condanna di Sallusti c’è da dire che essa ha poco a che vedere con la libertà di espressione e la libertà di stampa, come abbiamo già ricordato, e molto a che vedere con l’irresponsabilità e la diffamazione aggravata. “Le parole sono pietre”, amava ricordare Carlo Levi; e Freud ci ha ammonito che con le parole si può esaltare un individuo o gettarlo nella disperazione più cupa, sino al suicidio. Perciò è bene non dimenticare mai che la libertà d’espressione non può essere disgiunta da una corretta, veritiera e responsabile informazione.

La libertà di espressione e la libertà di stampa si difendono meglio, soprattutto sui giornali, se si impediscono anche le violazioni dei diritti altrui. La dignità della persona umana va tutelata sempre e comunque in quanto la diffamazione lede un patrimonio che oggi è, se possibile, più prezioso di quanto non fosse prima del web. Non va mai dimenticata la potenza diffusiva esponenziale segnata dal passaggio dalla veste cartacea del messaggio a quella mass-mediatica.

Mentre perciò che concerne il richiamo che si fa insistentemente a Voltaire, si dimentica che quell’affermazione di principio, che ha certamente la sua indubbia parte di verità, è stata fatta nel ‘700, per cittadini che condividevano principi, valori e concezione del mondo, in una realtà politica e territoriale soprattutto monoculturale, e in un tempo ben circoscritti e storicamente determinati. Ma come tutte le affermazioni prodotte dall’uomo non possono essere metastoriche e assolute, ma vanno contestualizzate e storicizzate e quindi diventano passibili di revisioni ed adeguamenti. Oggi in un mondo globalizzato multietnico, multiculturale e multireligioso, “il Web” – come dice Sergio Zavoli – ha assunto un carattere fortemente innovativo ed ha introdotto un linguaggio che rende obsolete le vecchie regole comunicative succedutesi da Gutemberg in poi. È sotto i nostri occhi il passaggio dai media tradizionali a Internet. La situazione del giornalismo italiano non è esaltante: oggi si contano solo cento copie vendute per mille abitanti, che diventano centtrenta con le free press, mentre i contatti on line sulla Rete dei due maggiori quotidiani il Corriere e la Repubblica superano ormai i dieci milioni di utenti. Quanto ai destinatari del flusso informativo, che fino a pochi anni fa potevano “solo leggere o vedere una notizia”, il Web consente di interagire con le news, integrarle e persino commentarle.

Oggi però accanto alle notizie vengono diffusi via Internet anche gli insulti e gli slogan antisemiti, antireligiosi, razzisti ecc. che raggiungono destinatari lontani e spesso incolpevoli. Sorgono a questo punto almeno un paio di domande: nel Terzo Millennio, in un mondo globalizzato, percorso da divergenti forme di ipercomunicazione che con le loro notizie istantanee e onnipresenti arrivano da per tutto fino a che punto si può parlare ancora di libertà assoluta sino ad ignorare irresponsabilmente le conseguenze che una simile affermazione può comportare per individui e per popoli che non condividono analoghi valori e medesime concezioni del mondo? Non è il caso di pensare a un’etica per i news media?

A tal proposito il filosofo e saggista bulgaro Todorov in una recente intervista a l’Unità, circa gli attacchi che si sono succeduti alle ambasciate occidentali in seguito alla pubblicazione delle vignette e alla diffusione sul Web del filmato blasfemo su Maometto, dopo avere condannato senza riserve le violenze ha affermato: “Però a coloro che in Occidente difendono a tutti i costi la libertà di espressio­ne vorrei dire che questo non è un valore as­soluto neanche in democrazia. Perché, so­prattutto quando si esercita ai danni di una minoranza, tale libertà può diventare sinoni­mo di potere e di violenza. Quando si affron­tano tali discorsi, ricordo sempre il caso del padre dell’antisemitismo francese, il giorna­lista Edouard Drumont, che fondò una rivi­sta intitolata Lìberaparola. Una libertà di pa­rola che diventava strumento di denigrazio­ne e oppressione di una minoranza. Quella minoranza che allora era la comunità ebrai­ca oggi può essere, in Europa o negli Stati Uniti, quella islamica”. “La libertà di espressione – ha detto Fabius, in visita al Cairo, dopo l’incontro col collega Mohamed Amr sul film anti-Islam – non vuol dire insultare paesi o popoli. Non accettiamo che la libertà di espressione venga male usata”. Che fare allora?

 Un equilibrio tra libertà e responsabilità deve essere assolutamente ricercato nella nuova legge sull’informazione che il Governo sta approntando in questi giorni. Questa legge è una misura di civiltà che ci sollecitano da molti anni tutti gli organismi internazionali che si occupano di diritti umani e di libertà: dall’Onu, all’Ocse, alla Corte Europea di Strasburgo. Con una sola voce, dicono che è inaccettabile il car­cere per i giornalisti responsabili di diffamazione. Non il carcere, quindi per il reato diffamazione, ma una legge che preveda a chi diffama una pena economica e un risarcimento in tutte le forme del danno d’immagine e d’onore perpetrato.

In questo tempo di iper-comunicazione, tutti abbiamo grande cura della nostra immagine: siamo sui social network e pretendiamo giustamente un alto livello di protezione per i nostri dati.

Ma dobbiamo anche avere un’attenzione per l’Altro, e quando dico l’Altro non parlo solo del nostro prossimo, ma mi riferisco a quello che vive lontano da noi, dalla nostra religione, dalle nostre tradizioni e culture, ma che viene investito nel bene e nel male dalla comunicazione istantanea e onnipresente di Internet.

Infine vorrei dire che anche la “questione Sallusti” ci parla, se c’è ne fosse ancora bisogno, della grave crisi, dei nostri ritardi e dei limiti della nostra classe dirigente, ma anche della scarsa consapevolezza civica di noi Italiani incapace di una lettura critica dei mass media.

Dice a tal proposito Primo Levi in una conversazione con Corrado Staiano del maggio del 1975, ma sembrano parole appena pronunciate: “Accade sovente di ascoltare gente che dice di vergognarsi di essere italiana. In realtà abbiamo buone ragioni di vergognarci: prima fra tutte il non essere stati capaci di esprimere una classe politica che ci rappresenti”.

Ma per esprimere una classe politica che ci possa rappresentare degnamente è necessario che la politica si auto-riformi seriamente cessando di essere per molti una “professione” e tornando ad essere un “servizio”come lo è stato all’indomani della fine della Seconda Guerra Mondiale per i padri costituenti. Ma è necessario anche educare la cittadinanza alla fruizione critica e consapevole dei mass-media, “favorendo” – come ricordava il compianto Cardinale Carlo Maria Martini nel 1992 – “il processo di ‘uscita della massa’, perché le persone, dallo stato di fruitori anonimi dei messaggi e delle immagini massificate, entrino in un rapporto personale come recettori dialoganti, vigilanti e attivi”.

Come ci ricorda il giornalista J. Pulitzer: “Una opinione pubblica BENE INFORMATA è la corte suprema di ogni società”. Non c’è altro antidoto migliore per difendersi da demagoghi, e manipolatori di coscienze.

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