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Attualità

PROF, A CHE SERVE LA FILOSOFIA?

ROMOLO VITELLI - 19/10/2012

A scuola gli studenti, spesso quelli che non avevano iniziato il corso di storia e filosofia con me, mi chiedevano un po’ maliziosamente e ironicamente a che servisse la filosofia e se il mio amore per la filosofia l’avessi contratto a scuola o no. E io, dopo aver cercato di dare una definizione della materia, e spiegato a che dovesse servire, leggevo un brano della lettera che il filosofo Cartesio aveva inviato all’abate Picot, nel  1644: “Significa davvero tenere gli occhi chiusi, senza cercare mai di aprirli, vivere senza filosofare; e il piacere di vedere tutte le cose che la nostra vista scopre non è per nulla paragonabile alla soddisfazione, che dà la conoscenza di quelle cose che si trovano per mezzo della filosofia; infine questo studio è più necessario per regolare i nostri costumi e orientarci in questa vita, di quanto non lo sia l’uso dei nostri occhi per guidare i nostri passi”.

Poi, riprendendo il discorso rispondevo loro che  la passione per la filosofia non l’avevo purtroppo contratta a scuola dai miei professori, che anzi ci avevano messo del proprio a tenermi lontano dalla disciplina, ma che avvicinarmi alla filosofia era stato il bisogno di dare un senso più compiuto alla mia esistenza. Raccontavo agli studenti  di avere avuto due docenti della disciplina: il primo dell’Italia del Nord, un tipo alto, con una testa piena di capelli rossicci che sembravano un cespuglio aggrovigliato ed un paio di occhiali spessi. Non aveva la “barba né il mantello” come usavano nell’antichità certi  filosofi, ma a pensarci oggi aveva tutte le caratteristiche caricaturali, che i vari scrittori satirici un tempo amavano affibbiare ai filosofi, nella Grecia antica. Non si sedeva mai in cattedra, ma amava parlare, parlare andando su e giù per lo spazio centrale della grande aula scolastica.

Quando in seguito lessi, per i miei esami universitari quel passo dell’ Apologia di Socrate, di Platone, che recita: “Voi stessi avete visto un certo Socrate che andava su e giù per la scena dicendo di camminare per aria e spacciando altre simili stupidaggini, a proposito delle quali io non ho proprio nulla da spartire, né poco né tanto”; e vi trovai qualche analogia con la nostra situazione vissuta a scuola. Certamente non camminava per aria, né saranno state stupidaggini quelle che ci diceva, però di una cosa eravamo tutti sicuri: erano questioni che volavano altissime sulle nostre teste e di nessun interesse per noi ragazzi adolescenti.

Non era cattivo e nemmeno severo, ma non ricordo che ci facesse fare compiti scritti né che ci interrogasse; le uniche cose che ricordo nitidamente di lui erano due sue affermazioni: “Ragazzi, le molte voci producono il silenzio!” Cosa che ripeteva sistematicamente quando qualcuno di noi, magari per mostrarsi interessato alle “questioni filosofiche”, rivolgeva qualche domanda, venendo subito subissato dalle  ilarità e dai borbottii vari della scolaresca. E un’altra, indirizzata in risposta a uno di noi, diventata poi famosa per la punta di affettuosa  ironia, ma anche per  quel po’di “cattiveria”, che conteneva.

Avevo un mio compagno di banco, un bel ragazzo, dal fisico statutario, figlio di un contadino, che non capiva assolutamente nulla, come del resto tutti noi, di ciò che ci diceva il professore. Mentre il nostro filosofo “spiegava”, amava interromperlo mostrando i suoi muscoli: “ Prof, che muscoli!” Quasi a dire: “Non capirò nulla di filosofia, ma guardi qui,” mostrando i suoi i bicipiti che allenava non con gli attrezzi che si trovano in tutte le palestre oggi, ma sollevando con le braccia, a volte alternativamente altre volte assieme, blocchi di cemento forati, molto usati in Abruzzo allora nelle vigne e nelle costruzioni. E di rimando il professore: “Aldo, tu, i muscoli, ce li hai nel cervello!”

Ecco queste sono le uniche affermazioni, le uniche cose che ricordo e che mi sono rimaste impresse nella mente di tutto il mio primo anno di filosofia, nient’altro!

Il professore, proveniente dal Nord, evidentemente era venuto a Pescara, vincitore di concorso e dopo avere espletato l’anno di prova era subito scappato. Sicuramente sarà diventato uno di quei professori di filosofia dell’Università tanto criticati da Nietzsche nel suo libro Schopenhauer educatore, dove lamentava che la filosofia fosse soltanto critica delle parole alle parole e non fosse vita. Nessuno degli amici e compagni di scuola che ho rincontrato ormai da adulto e laureato ha mai compreso chiaramente che cosa il professore e la filosofia volessero esattamente da noi. Diceva delle cose che, come ho detto, passavano sopra la nostra testa senza lasciare traccia alcuna. Non c’era nessuna relazione tra le questioni che poneva lui e la vita reale di tutti i giorni.

Mi stavo convincendo, alla fine di quell’anno, che la filosofia non servisse proprio a niente e che avevano ragione quelli che dicevano che “la filosofia è quella cosa con la quale e senza la quale il mondo resta tale e quale”; e che io tutto sommato non ero portato per quella materia così ostica e lontana dalle mie possibilità ricettive e dai miei interessi; ma purtroppo non ero il solo a vivere questa non piacevole sensazione.

L’anno successivo arrivò un professore del tutto diverso dal precedente che restò sino alla maturità; se il primo non si sedeva mai in cattedra, ma passeggiava e parlava continuamente non prendendo mai il libro di testo tra le mani, il secondo era seduto sempre in cattedra e non toglieva mai le mani dal testo.

Avrà avuto una cinquantina d’anni, la pelle olivastra, i capelli brizzolati e curati con una pettinatura con la riga da un lato e tanta brillantina, penso fosse del Sud Italia. Sempre vestito con abiti completi e con un paio di occhiali scuri che non facevano trasparire emozione alcuna; spiegava in maniera monotona e senza pathos. Noi tutti anche con lui non capivamo quasi nulla di quello che diceva e facevamo una fatica tremenda a concentrarci. Alla fine della lezione diceva: “Studiate da pagina x a pagina y dopodomani, vi interrogherò”. Durante le interrogazioni ripetevamo tutti a memoria le pagine del libro senza capire nulla.

Un giorno mentre ero del tutto rassegnato alla mia scarsa comprensione delle questioni filosofiche che per me sembravano dispute sui massimi sistemi e per giunta di lana caprina, senza volerlo rivolsi lo sguardo al libro di testo, e venni attratto da una  pagina che avevo sfogliato distrattamente. Il mio banco era in seconda fila così potei notare che lui aveva davanti a sé aperta la stessa pagina del libro, la riconobbi perché c’era l’immagine di un filosofo.

Così mentre lui parlava il mio sguardo si posò su di una frase del testo di filosofia: “Solo nel sesto secolo la filosofia…”; era la stessa frase appena pronunciata dal professore. Continuai a leggere e vidi con stupore, che lui stava ripetendo, con un atteggiamento ispirato, e uno sguardo perso nel vuoto, parola per parola ciò che era scritto nel libro. Allora anche se inconsciamente cominciai ad avvertire perché sino ad allora non avevo capito né lui quando spiegava, diciamo così, né il libro, quando cercavo di preparami a casa per le interrogazioni.

Come compresi più tardi purtroppo il professore non operava chiarificazione alcuna né mediazione tra noi e la disciplina, ma si limitava semplicemente a ripetere a memoria ciò che c’era scritto sul testo d’adozione. Per anni a furia di usare sempre lo stesso manuale, aveva finito per impararlo a memoria. Poi da insegnante delle superiori  scoprii che quella cui avevo assistito da giovane, non era una pratica tanto peregrina, ma una prassi piuttosto diffusa tra gli insegnanti.

Le lezioni erano solo frontali  e il professore non ci coinvolgeva con nessuna attività personale o di gruppo. Mai che fossimo invitati a riflettere e/o a pensare su qualche questione, ma solo a ripetere i pensieri degli autori a memoria. Del resto chiedere spiegazioni su qualche cosa al professore non serviva a nulla, nella migliore delle ipotesi ti ripeteva quello che aveva appena detto prima e ti guardava con una faccia come per dire: “Beh, non hai capito nemmeno ora?”

Pensandoci bene mi ritorna in mente quello che diceva, in un momento di onestà intellettuale, chiamiamola così, un mio collega, ex-poliziotto, laureato in legge e diventato  professore di filosofia: “Spesso gli studenti mi chiedono spiegazioni su qualche passaggio che sto trattando e io non sapendo che dire, rispondo: “Attenzione ragazzi: in senso trascendente sì, ma in senso trascendentale proprio no”.

La lettura in seguito del bel libretto di Giovanni Mosca, Ricordi di scuola, mi aiutò a capire e mi chiarì i limiti della cultura scolastica mnemonico-contemplativa di allora.

A questo punto del mio racconto tra gli studenti sorgevano spontanee un paio di domande: “Ma allora prof, a che serve la filosofia? che cosa poi l’ha spinto a diventare professore di filosofia?”

E io puntualmente rispondevo: “Alcune motivazioni di tipo culturale, etico e politico, legate alla mia esistenza e soprattutto alla mia esperienza educativa quotidiana  e all’impegno politico”.

Ricordavo loro che il mio amore per l’insegnamento era sbocciato sin da piccolo seguendo mia madre insegnante. Dopo la maturità vinsi il concorso e cominciai subito a insegnare con passione ai ragazzi. Anche se gli alunni, le famiglie erano contenti di me e mi gratificavano con apprezzamenti lusinghieri, mi rendevo conto che le competenze acquisite però non sempre erano adeguate ai compiti complessi della formazione dei discenti che avevo davanti, né mi aiutavano  a dare senso alla mia esistenza.

Avrei dovuto definire meglio un mio “credo” pedagogico per dare un senso unitario alla mia pratica educativa complessiva. Così cominciai a  riflettere anche  sull’assunto gentiliano secondo cui chi conosce una materia la sa anche insegnare senza aver bisogno della didattica. Ma mi  resi pian piano conto che non era così che “la teoria senza la pratica era muta, ma che parimenti la pratica senza la teoria fosse cieca”. In sostanza che l’accademismo teorico astratto non fosse meno dannoso dell’empirismo miope, ma che ci fosse bisogno a scuola di sapere, di saper fare, ma anche di sapersi relazionare con gli allievi.

Però anche sul versante dell’impegno politico volontario cominciarono a sorgere i problemi.

Ben presto il mio entusiasmo teorico giovanile per la politica, si scontrò con gli interessi concreti e pratici di operai e contadini. Capivo che i miei discorsi fumosi e teorici non incidevano quasi per nulla  nella soluzione dei problemi pratici dei destinatari che erano interessati “prima al vivere e poi se mai al filosofare”. Un impulso decisivo all’acquisizione di una visione di vita in cui teoria e prassi fossero un tutto inscindibile mi venne da Antonio Gramsci.  I suoi Quaderni del Carcere  e le “Lettere dal Carcere” mi fecero comprendere a pieno  che “Non vi è pertanto attività umana (neppure la più pratica) da cui si possa escludere ogni intervento intellettuale: non si può separare l’homo faber dall’homo sapiens”. Compresi che la politica fatta come ‘servizio’ per amministrare la polis locale avesse bisogno non di sola prassi, ma soprattutto di un supplemento d’anima, di teoria, insomma di filosofia: di una concezione del mondo unitaria e dialettica cioè che oltre a conoscere il mondo e l’uomo dovesse essere in grado  trasformarli e  migliorarli.

E in questo passo ulteriore di chiarificazione decisiva è stata per me la lettura del filosofo Karl Marx che nelle Tesi su Feuerbach afferma: “I filosofi hanno [finora] solo interpretato diversamente il mondo; ma si tratta di trasformarlo”; ma anche che “l’educando educa l’educatore”. Mi resi conto così, grazie anche allo studio di alcune opere di  Rousseau, Pestalozzi  Kant,  Sergio Hessen, pedagogista polacco e del professore di didattica Michele Pellerey, dell’Università Pontificia Salesiana, che la cultura scolastica di cui ero imbevuto era una cultura critica e osservativa non generativa né risolutiva di problemi, utile tutto al più a discutere del “sesso degli angeli”.

La mia formazione di base, ma anche quella dei tanti colleghi,  risentiva di una cultura scolastica che considerava le materie come fini a se stesse e non come strumenti, mezzi per far crescere e maturare  le persone.

Cambiai impostazione e cominciai a selezionare i contenuti culturali, mettendo al centro del processo educativo non le materie e l’insegnante, ma il discente, facendo più attenzione agli interessi e al vissuto degli allievi.

Mi resi conto quindi che se volevo migliorare il mio approccio comunicativo per dialogare proficuamente con studenti ed operai, dovevo studiare di più logica e dialettica, cioè dovevo rivolgermi alla filosofia, che ha  come statuto disciplinare quello di insegnare a pensare e a ragionare meglio e bene, ma anche ad agire bene e responsabilmente. Così decisi d’iscrivermi all’Università di Urbino, per  studiare filosofia e pedagogia.

La frequentazione delle lezioni e alcune letture filosofiche di Socrate, Platone, Seneca,  mi fecero comprendere che cos’è la filosofia e a che serve. Scrive Platone a tal proposito nelle Leggi: “Io parlo dell’educazione dei fanciulli alla virtù, che accende nel fanciullo il desiderio e l’amore di riuscire perfetto cittadino e di saper comandare con giustizia e obbedire alla giustizia. Questa sola è ‘educazione’.

I greci com’è noto usavano, per indicare l’educazione, la parola paidèia, che significa “formazione della persona”. In questa paidèia, la filosofia entra a tal punto, che Platone non esita ad affermare che il potere politico e sociale deve essere nelle mani dei filosofi, ai quali, soltanto spetta di governare lo Stato. Da qui l’importanza della filosofia nella formazione dell’uomo e del cittadino. Ma la “filosofia” – aggiunge Lucio Anneo Seneca – “non è un’ arte atta a procacciarsi il favore del popolo e di cui si possa fare ostentazione. Essa non consiste nelle parole, ma nelle azioni, e non la si usa per trascorrere piacevolmente le giornate o per scacciare la nausea che viene dall’ozio. La filosofia, infatti, forma e foggia l’animo, regola la vita, governa le azioni, insegna ciò che si deve fare e ciò che si deve evitare, sta al timone e tiene la rotta in mezzo ai pericoli del mare in tempesta. Senza di essa nessuno può vivere libero da timori e tranquillo. In ogni istante capitano innumerevoli eventi che esigono una direttiva che solo la filosofia può dare”. (Lettera XVI a Lucilio ).

 In conclusione credo che oggi, in pieno smarrimento ideale, valoriale, cognitivo ed etico nel quale è immersa la nostra società sia necessario, per ricostruirla su basi morali e politiche democratiche corrette, fare riferimento alle definizioni di filosofia riportate sinora, ciò ci aiuterà a ripensare – come dice il filosofo Enrico Berti nel suo agile libretto Invito alla filosofia – “il concetto stesso di democrazia, di libertà, di diritto, di giustizia, di bene comune, tutti concetti su cui la tradizione filosofica occidentale si è a lungo soffermata e per i quali costituisce una fonte inesauribile di riflessioni e di approfondimenti”.

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