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Società

LA PESTE MODERNA SI CHIAMA DISOCCUPAZIONE

FRANCO GIANNANTONI - 08/11/2012

Foto di Carlo Meazza©

La moderna peste ha un nome. Disoccupazione. I dati Istat dello scorso settembre, emersi da un’indagine mensile su un campione di decine di migliaia di famiglie in tutte le provincie italiane, fanno venire i brividi alla faccia di chi intravvede la luce in fondo al tunnel. Il segno è sempre drammaticamente rosso.

Il numero dei disoccupati è di due milioni e 774 mila persone cioè 554 mila in più rispetto al settembre dell’anno precedente. In percentuale é il 24,9%. È il dato più alto dal 1992 ossia da quando l’Istat ha cominciato a lavorare sui dati che ha raccolto. Il tasso di disoccupazione è salito al 10, 8% rispetto all’8,8% del 2011.

Sul fronte giovanile la situazione è ancor peggiore: tra i 15 e i 24 anni, il 35,1% è senza lavoro, Un anno prima era il 33,8%. I giovani che cercano di sistemarsi dopo aver terminato gli studi sono oltre 600 mila.

La recessione sta martoriando il Paese anche se ampie sacche di benestanti possono sopravvivere senza avvertire contraccolpi, al riparo da minacce pressanti.

C’è un altro dato che colpisce, in apparenza contradditorio. Il numero degli occupati, dice l’Istat, è invariato su base annua. Nessuno ha perso il lavoro? Come si può spiegare? Almeno in larga parte con il deciso calo dei cosiddetti “inattivi” ovvero di quei cittadini che hanno rinunciato, visti i chiari di luna, a cercarsi un lavoro.

I numeri confortano questa “lettura”: +554 mila disoccupati, -552 mila inattivi. Questa è la lettura: in molti si sono messi a cercare un lavoro, trasformandosi da inattivi in disoccupati, categoria che comprende chi un lavoro non lo ha, ma lo cerca.

Claudio Treves, coordinatore del Dipartimento politiche del lavoro della CGIL dice: “Il rapporto tra disoccupati e inattivi ci dice che la crisi ha talmente abbassato i redditi da costringere molti a tornare in cerca di un lavoro, persone che avevano rinunciato a farlo proprio perché scoraggiate dalla recessione”.

Il rapporto Istat fotografa anche una differenza: rispetto al 2011, il tasso di occupazione maschile è calato dell’1% mentre quello femminile è cresciuto dell’1,1%. Il dato può essere interpretato in questo modo: la crisi ha colpito soprattutto l’edilizia e l’industria, due settori dove lavorano in prevalenza uomini. Mentre servizi e terziario dove le donne sono tante, hanno segnato un modesto incremento dovuto anche all’emersione di lavoro irregolare.

Un altro dato che cresce è il tasso di disoccupazione giovanile. In Italia sfonda il 35% a fronte di una media europea attorno al 20%. Ciò in parte dipende dal fatto che in Italia non c’è ricambio nei posti di lavoro anche per il peso delle riforme previdenziali. Un quadro destinato a peggiorare in previsione dell’effetto che produrrà la riforma Fornero.

A confermare l’analisi, ecco altre cifre: se nel 2004 erano al lavoro oltre 2,1 milioni di italiani tra i 55 e i 64 anni, nel 2011, nella stessa fascia di età, gli occupati erano 2,8 milioni, saliti a oltre tre milioni nel secondo trimestre del 2012 il che significa che gli “anziani” non se ne vanno quasi sempre perché non lo possono fare. E i giovani restano fuori mercato, prendono quello che trovano semmai lo trovino, tra contratti a termine o lavori in nero.

Il Paese è malato. Va rivoltato come un calzino. Si dovrebbe produrre di più e meglio, occorre trovare un accordo sindacati-governo sulla produttività, occorre detassare i salari e restituire qualcosa ai pensionati, costretti per forza di cose a non spendere.

Chi è in controtendenza è il mondo agricolo. Secondo la Coldiretti c’è un aumento del 10% fra gli occupati nel secondo trimestre del 2012. Il lavoro della terra c’é. Un buon segnale che non serve a cancellare le tribolazioni negli altri settori. La Fiat in primis. Crollo delle vendite. Piano Italia indecifrabile. La dirigenza che sfida lo Stato di diritto imponendo rappresaglie intollerabili.

Infierire non paga. Attenzione, signori, alla rabbia dei poveri cristi.

Il sociologo Luciano Gallino sul punto non ha dubbi: “Fino a che non esisteranno politiche per la crescita non ci sarà nuova occupazione. Ma di queste politiche non si vede traccia. Qualche soldo è stato speso in più ma è chiaro a tutti che le cifre dimostrano la totale insufficienza di questo approccio. Anche perché l’idea che la riduzione della spesa possa rilanciare la crescita è davvero bizzarra”.

Per Gallino la sola strada è quella “di un sano e oculato intervento pubblico”, Il richiamo è al New Deal, alla politica di Roosevelt che in poco tempo attivò grandi energie e risorse. “Con un intervento pubblico diretto – dice – gli USA crearono ponti, costruirono strade e dighe, piantarono alberi. Obama di recente ha proposto una legge, l’American Jobs Act con agevolazioni fiscali per le imprese ma anche stanziando 180 milioni di dollari per fare quello che Roosevelt fece negli anni ’30. Bene, la destra repubblicana ha affossato quella legge”.

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