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Spettacoli

PAUL DAGLI OCCHI DI GHIACCIO

MANIGLIO BOTTI - 11/01/2013

Celebrato lo è stato, anzi celebratissimo. Al punto che negli anni Sessanta il poster con la sua immagine – gli occhi di ghiaccio, il volto sempre un po’ corrucciato – spesso campeggiava nelle camerette delle giovani adolescenti. Magari insieme con quello di James Dean o, per i ragazzi, di Marilyn o di Brigitte Bardot. Del resto Paul Newman (1925-2008), benché fosse di sei anni più “anziano”, di Jimmy Dean era considerato l’erede. Anch’egli doveva qualcosa al mito che s’era annientato in un pomeriggio di settembre del 1955 al volante di una 550 Porsche Spider, così come un semidio scompare nel cielo guidando un carro di fuoco.

I primi film di un certo richiamo che girò – Il calice d’argento (The Silver Chalice, 1954) di Victor Saville, ma soprattutto Lassù qualcuno mi ama (Somebody Up There Likes Me, 1956) di Robert Wise – erano stati assegnati a Paul Newman e “pensati” per Jimmy Dean. Paul se ne impossessò senza farsene una ragione. In realtà, più che a Dean, Newman era affine – anche fisicamente – a Marlon Brando, altro nume della Hollywood di quegli anni. Rispetto a Jimmy, che se il destino non gli avesse posto l’ultimo insormontabile ostacolo su una superstrada della California a lungo sarebbe stato condannato a interpretare ruoli di ragazzo ribelle, era più alto (di poco). Più uomo, in una parola. I sei anni di anzianità gli erano valsi poi un arruolamento volontario nella marina degli Stati Uniti e un servizio militare svolto durante la guerra nel Pacifico. Non era mai stato in prima linea, ma le sue biografie raccontano che il 6 agosto del ’45 – quando fu fatta esplodere la bomba su Hiroshima – Paul fosse in volo a circa 300 chilometri di distanza. Vide il bagliore del fungo atomico. Non era un’esperienza di cui parlava volentieri.

Al cinema di successo Paul Newman arrivò quand’era già trentenne, attraverso il teatro di Broadway, e sposato – con Jackie Witte – e padre di tre figli. Il suo primo matrimonio, sempre stando alle biografie, non fu fortunato. Prevalevano la carriera e il cinema. La seconda moglie – Joanna Woodward, che gli fu accanto fino all’ultimo, e che pure gli diede tre figlie – l’aveva conosciuta sul set. Il suo primogenito, Scott, avuto da Jackie Witte, morì suicida nel 1978. Aveva solo 28 anni. Quando lo informarono, Paul non ebbe parole. E a malapena, davanti ai cronisti, riuscì a mormorare “Why?” “Perché?”.

Per tutta la seconda metà degli anni Cinquanta e nel decennio dei Sessanta Paul Newman è stato uno degli attori più famosi – e ricchi – di Hollywood. Agli inizi era stato scritturato dalla Warner, ma passava spesso in prestito ad altre Major. Fu anche coproduttore e produttore di sé stesso con la Five Artists, di cui facevano parte Sidney Poitier, Barbra Streisand e – più tardi – Steve McQueen. Quest’ultimo gli trasmise la passione per le corse automobilistiche, ramo in cui si cimentò con ottimi risultati, sia come pilota sia come attore. Il mito della velocità, che compare spesso nell’agenda di tanti grandi di Hollywood, lo conobbe da cima a fondo.

È singolare il fatto che gli sia stato riconosciuto l’Oscar alla carriera – nel 1986 –, prima ancora di vederselo assegnato come miglior attore protagonista. Cosa che avvenne nel 1987 per “Il colore dei soldi” (The Color of Money, 1986) di Martin Scorsese. Ma era accaduto anche a Henry Fonda. Nel passato aveva avuto ben sette nomination, senza mai conquistare la statuetta, e altre due le avrebbe fatte segnare dopo gli Oscar ufficiali.

Dovendo scegliere tre film che ci hanno fatto conoscere e apprezzare Paul Newman, li indichiamo tutti negli anni Sessanta. Come ogni scelta, pecca di soggettivismo. Ma tant’è: il nostro è stato un grande attore. Forse, nella vecchiaia, ancora migliore in assoluto. Ma non si possono cancellare i sogni della giovinezza.

Ed ecco così “Lo spaccone” (The Hustler), di Robert Rossen, del 1961. È la storia del giocatore di biliardo Eddie Felson, indeciso tra il gioco e la vita vera, cui Paul Newman dà vita con una straordinaria caratterizzazione professionale. Alla De Niro, avrebbero detto con il senno di poi alcuni commentatori. Invero fu una prova che anticipò tutti i migliori interpreti hollywoodiani degli anni a venire. Il personaggio di Eddie Felson tornerà sugli schemi, sempre rappresentato da Newman, nel Colore dei soldi, il film che gli procurerà l’Oscar tanto “atteso”.

Altro film da ricordare “Nick mano fredda” (Cool hand Luke), di Stuart Rosenberg, del 1967. Stavolta Newman interpreta il “balordo” Jackson, condannato a due anni di lavori forzati solo per qualche banale intemperanza. Fuggirà dal campo, verrà ripreso, scapperà ancora, protetto dal detenuto “anziano” Dragline (George Kennedy). Una prova magistrale. George Kennedy viene premiato con la statuetta dell’Oscar quale miglior attore non protagonista. Newman ebbe la nomination, senza esito per lui anche in quell’anno. “Un tipico prodotto hollywoodiano, come non se ne fanno più”, ha scritto il critico cinematografico Paolo Mereghetti.

Il terzo film prescelto – e qui davvero l’indicazione è personalissima – è un western: “Hombre”, del 1967, di Martin Ritt. Paul Newnam caratterizza un indiano-bianco. Un “selvaggio” con gli occhi azzurri. Un personaggio scontroso e di poche parole ma capace infine anche di un gesto di solidarietà umana, a scapito della propria vita. I fatti e le azioni, più che le cose dette. È un western classico anticipatore, in un certo qual modo, di altri che poi di lì in avanti avrebbero avuto successo sugli schermi, catapultando il genere e i temi che avevano spadroneggiato negli anni Cinquanta e primi Sessanta: da “Soldato blu” (Soldier Blue, 1970) di Ralph Nelson a “Corvo rosso non avrai il mio scalpo” (Jeremiah Johnson, 1972) di Sydney Pollack. Forse è un vedervi troppo. Lo stesso Paul Newman non era certo estraneo al western cosiddetto moderno e a quello classico (pensiamo a “Hud il selvaggio” – Hud, 1963 –, ancora di Martin Ritt, o a Furia selvaggia-Billy the Kid, del 1958 – The Left-Handed Gun –, di Arthur Penn, e in particolare a “Butch Cassidy” – Butch Cassidy and The Sundance Kid, 1969, di George Roy Hill). Non è un caso che l’attore avesse scelto per sé stesso il nick-name di Butch, personaggio che davvero amava, e che fece stampare sulla sua tuta di corridore e pilota ai tempi delle corse in auto.

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