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Opinioni

IL RIFIUTO DELLA REALTÀ

VINCENZO CIARAFFA - 11/01/2013

Bill Emmott, saggista, corrispondente della rivista inglese The Economist e editorialista de La Stampa di Torino, il 10 dicembre scorso ha incentrato il suo editoriale sul fatto che quello nostro è un Paese che rifiuta di guardare in faccia la realtà. Benché non abbia in grande considerazione l’equanimità di giudizio dei giornalisti britannici quando riferiscono dell’Italia, lo scrivente stavolta è più che d’accordo con l’esimio collega d’oltremanica. In effetti, l’Italia rifiuta di guardare la realtà dal 26 luglio del 1943, dal giorno dopo la caduta di una ventennale dittatura che non era scesa dalla luna, ma era stata la risultante dei molti errori commessi dalla classe politica negli anni immediatamente successivi alla Grande Guerra.

Per mantenerci almeno noi nel campo della realtà/oggettività della storia, dobbiamo dire che quella dittatura poteva essere sconfitta sul nascere se le Forze Armate avessero garantito la difesa dello Stato liberale, la classe politica fosse stata compatta e la Chiesa fosse stata coerente col suo magistero di giustizia, di pace e di libertà. E, invece, le cose andarono molto diversamente. A Vittorio Emanuele III che gli chiedeva della volontà dell’Esercito di stroncare la cosiddetta marcia su Roma dell’armata Brancaleone fascista, l’allora Capo di Stato Maggiore, Generale Diaz, diede una risposta che non lasciava spazio all’immaginazione del re che già di suo ne aveva poca: «Maestà, l’Esercito farà il suo dovere ma è meglio non metterlo alla prova».

Fece da riscontro all’ignavia dei militari la consueta frammentazione della classe politica italiana che, invece di adoperarsi per favorire il ritorno al governo di Francesco Saverio Nitti, l’unico ad aver capito quale pericolo il fascismo rappresentasse per l’Italia e tra i pochi in grado di tenere insieme (con l’appoggio di Filippo Turati) le variegate forze che vi si opponevano, preferirono procedere divisi, disordinati e anche patetici. Infatti, il massimo sforzo che i politici del tempo riusciranno a fare per opporsi alla nascita della dittatura sarà il romantico ma inutile, ritiro di protesta sull’Aventino: bisognava, invece, essere capaci di organizzare una contromarcia su Roma dei partiti parlamentari, senza avere paura dei manganelli e dell’olio di ricino! Tutto ciò mentre la Chiesa, per bocca di Pio XI, definiva Mussolini “l’uomo della Provvidenza”.

Da quel momento, e per i successivi vent’anni, gli italiani avrebbero vissuto in una bolla d’irrealtà, in uno stato di esaltazione permanente, drogati da una propaganda scientifica, dal passo romano, dalle parate militari sulla via dei Fori Imperiali e dalle adunate oceaniche a Piazza Venezia. Insomma, essi finirono per convincersi per davvero di poter rinnovare i fasti imperiali dell’antica Roma, rifiutando di vedere una realtà che era compenetrabile da qualsiasi intelletto che fosse in pienezza di sé: la caput mundi esprimeva un potenziale militare e produttivo (basato sulla mano d’opera a costo zero, la schiavitù) praticamente inesauribile mentre l’Italia fascista era irrimediabilmente povera, dove si moriva ancora di malaria e pellagra.

Venne, poi, l’alleanza con la Germania nazista, le leggi razziali, un’assurda guerra d’aggressione, una rovinosa sconfitta militare, l’armistizio dell’8 settembre 1943, la fuga del re e del governo, la nascita della cosiddetta Repubblica Sociale e l’inizio della guerra civile in un Paese diviso in due e dove, ormai, scorrazzavano ben otto eserciti stranieri. La lotta partigiana che si sviluppò nel Centro – Nord del Paese intruppò uomini e passioni molto diverse per metodi e obiettivi incidendo poco o niente sulla guerra in corso ed è, perciò, una mistificazione della realtà storica sostenere – come si fa dal dopoguerra – che l’Italia si sia affrancata con le sue forze dalla dittatura e dall’occupazione nazista. Tale mistificazione, in verità, fece comodo un po’ a tutti. Fece comodo ai tantissimi convertiti dell’ultima ora della Resistenza, perché soltanto esibendo meriti resistenziali, si poteva lucrare incarichi e prebende nel nuovo regime e soddisfare, così, una fame di potere arretrata di vent’anni. Fece comodo ai democraticissimi americani perché risolveva un loro problema che non era tanto politico quanto d’immagine interna e internazionale sicché, quando per mutate esigenze strategiche essi saranno costretti a prendere sotto la loro tutela una nazione di fascisti riciclati come l’Italia, la troveranno già bella e ripulita, addirittura candeggiata da una “vittoriosa” guerra di liberazione. Alla stragrande maggioranza degli italiani, invece, la mistificazione servì per convincersi che fosse stato il fascismo a perdere la guerra e non loro evitando, come scrisse il saggista e scrittore Andrea Giovene, «…un atto di coscienza collettivo che non poteva quindi palesarsi; e che non ci fu». Insomma il dopoguerra italiano, oltre che della rimozione delle colpe e/o dei sensi di colpa, segnò anche il consolidamento della nostra incapacità di saper guardare in faccia la realtà come, giustamente, ci rinfaccia Bill Emmott.

Fu, infine, la Repubblica Italiana e una Costituzione che si vuole scritta dal popolo e che, invece, fu il frutto del compromesso di un’élite intellettuale che durante i lavori della Costituente, eccetto che sulla pregiudiziale antifascista, si trovò divisa su ogni singolo articolo. I membri di quell’élite che, con ieratico rispetto, oggi chiamiamo i padri costituenti erano, per la maggior parte, i rappresentanti di una “idea” non di un popolo e che di ieratico non avevano molto tanto che, nella seduta del 2 maggio 1947, si affrontarono in una scazzottata generale, come nel peggior film sul Far West. Il vero handicap dei padri costituenti, però, non furono le ideologie e la litigiosità ma i limiti intellettuali perché, per età, cultura e tradizioni essi appartenevano al secolo precedente e quindi non erano in grado di compenetrare una realtà già in parte globalizzata: la storia del mondo, infatti, aveva cessato di essere eurocentrica per diventare bipolare, come dire o di qua o di là!

Una Costituzione “neutra” come loro la concepirono, pertanto, non era in palla con i tempi, anzi, in alcuni punti si sarebbe rivelata in contrasto con le alleanze che già si prefiguravano, tipo l’Alleanza Atlantica. Sì, perché una volta inserito nella carta costituzionale l’articolo 11 (L’Italia ripudia la guerra…), entrare poi a far parte di un’alleanza militare dotata di un forte potenziale difensivo ma anche aggressivo era un’incoerenza, anche se non fu la sola. L’articolo di apertura della Costituzione, infatti, esordì con una pleonastica dichiarazione di principio che oggi appare perfino derisoria stante i tre milioni di disoccupati, tipica di un ordinamento schiavo appunto dei principi e per niente calato nella realtà pratica: «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro». Perché, possono esistere anche delle repubbliche fondate sugli sfaticati? I costituenti, tra l’altro, non disegnarono in modo netto le regole riguardanti chi, come e quando dovesse governare il Paese non valutando appieno le conseguenze di ciò su di un Parlamento che ospitava il più forte raggruppamento socialcomunista dell’Occidente, sicché prese corpo un ordinamento di stampo liberaldemocratico i cui governi, per sopravvivere, avrebbero dovuto operare sul piano pratico come in un regime statalista.

Fu così che nacque un ircocervo politico che non trovava precedenti nelle democrazie occidentali e che si potrebbe definire “democrazia ereditaria”, cioè il potere a esclusivo appannaggio di un solo partito, la Democrazia Cristiana, che – quando non aveva i voti per poter governare – ricorreva al mercato delle vacche con le opposizioni, mercato dove si vendeva di tutto, compreso ideali politici, posti di lavoro, erogazione clientelare di pubblico denaro, pensioni per invalidità fasulle, eccetera. Anche in quel caso nessuno volle vedere un’affiorante realtà: ciò che si stava costruendo non era la democrazia ma il presupposto fondante di quella “dittatura del sistema” che oggi ci sta svuotando le tasche, della linfa vitale della passione politica, delle energie morali e della fiducia di poter costruire un domani migliore.

D’altronde, non ci si poteva aspettare nulla di meglio da un consesso che si trovò a decidere su molteplici aspetti della vita del popolo italiano senza possederne le competenze. Quando, ad esempio, si trattò di affrontare in seno alla Costituente il tema della difesa nazionale, essi ne tennero fuori i vertici militari (eravamo a qualche anno dall’8 settembre 1943…) e il dibattito su di un argomento fondamentale per la sopravvivenza della nazione fu animato, invece, da Palmiro Togliatti, Sottotenente di Complemento riformato della Grande Guerra, e da Aldo Moro che esordì dichiarandosi antimilitarista. Il primo si oppose al volontariato perché era «La rovina di una società e la rovina dello Stato», il secondo perché «La gerarchia militare soffoca la dignità della persona umana». Neppure loro due vollero vedere la realtà di ciò che era accaduto: la guerra appena finita era stata provocata da regimi che non possedevano eserciti di mestiere (gli uomini occorrenti, per mettere insieme un esercito da Seconda Guerra Mondiale si potevano trarre soltanto dalla leva!), e che a soffocare la dignità degli italiani per vent’anni avevano contribuito l’ignavia e gli errori della generazione politica alla quale entrambi appartenevano.

Dopo aver subito cinque guerre in mezzo secolo, era fatale che gli italiani mettessero la Costituzione a dormire in un cassetto e pensassero esclusivamente a costruirsi un po’ di benessere: lo chiamammo boom economico mentre, in effetti, avremmo dovuto chiamarlo “Lo Stato fuori dalle balle”. Sì, perché se fossimo stati capaci di guardare la realtà anche in quel caso, avremmo capito le vere ragioni di quel boom economico ma lasciamo che le sintetizzi per noi ancora Andrea Giovene: «La burocrazia cominciava a ricostruire appena i suoi quadri; la legge penale aveva minimo imperio; la civile e l’amministrativa, nessuno; cosicché i tre classici avversari dell’italiano, il Comune, la Provincia, lo Stato lasciavano finalmente campo libero al costume». Tra alti e bassi, gli anni passarono, i problemi degli italiani crebbero e la classe politica raggiunse picchi d’impudenza inauditi.

La sera del 17 febbraio 1992, partendo dall’arresto del tangentiere Mario Chiesa, i magistrati del tribunale di Milano provarono a dare una resettata (anche se, poi, ci prenderanno gusto …) alla moralità politica della Prima Repubblica convinti probabilmente in buonafede, che ciò avrebbe favorito la palingenesi del Paese. Alla possibilità che il Paese potesse migliorare grazie al pool di Mani Pulite ci credemmo un po’ tutti, anche se all’epoca non volemmo vedere un’altra solare realtà: l’etica di una classe dirigente non si può costruire a colpi di avvisi di garanzia! Neppure si poteva sperare che “quella” classe dirigente fosse in grado di rigenerare se stessa e, pertanto, noi cittadini avremmo dovuto pretendere la convocazione degli Stati Generali della società italiana in cui fissare nuove regole di governo e, conseguentemente, stipulare per la prima volta un contratto sociale tra governanti e governati. Ciò, probabilmente, ci avrebbero reso entrambi più responsabili. Questo non avvenne e, com’era logico attendersi, anche la Seconda Repubblica (del malaffare) si sta frantumando sotto le randellate della magistratura con l’aggravante, questa volta, che le conseguenze saranno spalmate, su non sappiamo quante generazioni a venire.

Peraltro, la mancanza di un minimo di capacità previsionale della classe politica e dirigente su di una crisi economica e finanziaria che era alle viste da almeno dieci anni ha colto impreparato un Paese che ha già sul groppone un debito pubblico di 2.000 miliardi di euro. Lungi dal guardare – finalmente! – in faccia la realtà e comprendere che senza riforme radicali, vere, in campo costituzionale e istituzionale nessuna strategia potrà trarre il Paese dalla sabbie mobili in cui sta sprofondando, gli eletti dal popolo si affidarono a un non eletto dal popolo sperando che questi facesse un miracolo. A parte che già un fatto del genere la dice lunga sul nostro senso della democrazia ma anche della decenza, i miracoli li fanno i santi e il professor Monti non risulta che lo sia mai stato anche perché proveniente dal quel diabolico mondo economico e finanziario i cui disinvolti giochetti (come la trasformazione dell’economia in finanza) sono stati la causa prima della crisi.

Nonostante ciò, sperammo sinceramente che egli riuscisse a salvare sia l’economia, sia la democrazia italiana e dopo Berlusconi non vi voleva molto farlo. E, invece, non ha salvato né l’una, né l’altra e anche qui per due ragioni che nessuno vuol vedere. Di quale democrazia parliamo in un Paese, dove un signore nessuno, eletto da nessuno, nel giro di ventiquattro è stato nominato dal Presidente della Repubblica senatore a vita e capo del governo? Questo fatto non ci ricorda qualcosa che avvenne nel 1922? Soltanto un imperatore romano, Caligola, si era permesso una tale impudenza quando nominò senatore un cavallo il quale però – detto a parziale discarico di Caligola – non ebbe il potere di imporre tasse a getto continuo, giustificandole con la costruzione della ripresa economica e industriale del Paese.

Per carità, noi ci guardiamo bene dall’addebitare a Mario Monti guasti che datano decenni ma, anche se non siamo bocconiani, un dubbio ci viene: se una ripresa economica e industriale si fonda sulla crescita/tenuta dei consumi interni e delle esportazioni, vuol dire che i cittadini dovrebbero avere più soldi da spendere e il costo dei prodotti dovrebbe essere appetibile almeno quanto quello dei Paesi competitori in un regime di libero mercato. Ma incentrare una fantomatica ripresa sulle tasse, cioè riducendo la capacità di spesa dei cittadini, e sull’aumento del costo del lavoro, penalizzando le esportazioni, non va nella direzione opposta? Non a caso, la ripresa nel 2013 annunciata un anno fa dal capo del governo ormai dimissionario, è diventata una ripresina. E saremo già fortunati se ci sarà almeno una ripresina perché tutto rema contro di essa, perfino lo Stato che non fa produrre alle nostre imprese neppure le divise delle sue Forze Armate e di Polizia, preferendo acquistarle a buon mercato da industrie manifatturiere straniere.

In altri termini i governi italiani vorrebbero incoraggiare i consumi e, quindi, la produzione riducendo sul lastrico i potenziali consumatori e, allo stesso tempo, togliendo quel po’ di produzione che ancora resta alle imprese nazionali: ma per cortesia, il prossimo capo del governo andate a cercarlo tra i lavoratori socialmente utili invece che alla Bocconi! In occasione dell’annunciato ritiro dell’appoggio al governo Monti da parte del PDL, neppure il Presidente della Repubblica ha voluto guardare in faccia la realtà quando ha dichiarato “Vediamo cosa ne pensano i mercati”. Vediamo cosa ne pensano i mercati? Signor Presidente, andando di questo passo, tra poco il problema non sarà cosa ne pensano i mercati (che, comunque, se ne sono impipati della dipartenza di Monti) ma di ordine pubblico perché una buona parte degli italiani sarà ridotta alla fame! E la fame è sempre stata la scintilla che ha acceso le rivolte e portato i facinorosi al potere. A questo punto o, come ci esorta a fare neppure molto convinto Bill Emmott, affrontiamo la realtà storica, politica e sociale del nostro Paese, o soccomberemo sotto di essa. Non abbiamo altra scelta.

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