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Politica

QUEL “CORAGGIOSO” ANTAGONISMO

MANIGLIO BOTTI - 20/11/2011

Tutto li divide, Mario Monti e Bossi e la Lega, tranne il luogo di origine: la città di Varese, dove Monti è nato un paio d’anni dopo il Senatür, il quale ultimo guarda caso è invece di Cassano Magnago, paese situato pochi chilometri più a Sud. La questione territoriale, in tali circostanze, e sempre, dovrebbe entrarci poco o nulla. Non oggi, cioè nei pensieri e nei giudizi di un partito che ha fatto e fa della terra di nascita un imprinting imprescindibile di valutazione. Al punto che se capitasse a molti leghisti di procedere a un’ipotetica classifica dei ministri (italiani) della pubblica istruzione, tra Benedetto Croce e Maria Stella Gelmini probabilmente essi sceglierebbero la seconda per via della parlata nordista. E chissenefrega dei contenuti.

Muovere, dunque, una critica a Mario Monti sfoderando la carta d’identità è un’arma spuntata. Anche Mario Monti conosce il dialetto lumbard, oltre naturalmente all’inglese, al francese e al tedesco, e perciò anche l’ex commissario europeo chiamato a risollevare una nazione in ginocchio potrebbe riscuotere un po’ di attenzione, e di fiduciosa simpatia, tra i diffidenti commercianti bosini. Per il resto – le differenze sono state molto bene analizzate da Gian Antonio Stella sul Corriere della Sera – non ci sono altri tratti in comune tra Monti e Bossi. L’uno parla sottovoce con tono britannico, ma convincente, l’altro urla (urlava) spropositi e insulti; l’uno s’è laureato in fretta alla Bocconi con una specializzazione a Yale, l’altro è cresciuto alla scuola dei bar e dei biliardi dopo un primo diploma conseguito in tarda età a Radio Elettra; l’uno s’è fatto le ossa alla Comit – la banca fondata dal “santambrogino” Giuseppe Toeplitz –, l’altro è riuscito a sbarcare il lunario e a trovare sostentamento per sé, e per la propria famiglia, grazie solo ad emolumenti politici mai respinti di “Roma ladrona”.

Ciononostante la posizione defilata e antagonistica assunta dalla Lega nei riguardi di un presunto governo tecnico è stata definita da alcuni osservatori “coraggiosa”. Ma soltanto dal punto di vista di un altrettanto presunto ed eventuale tornaconto elettorale, in realtà. Perché dietro allo sdegnato rifiuto, dietro al deciso no al sostegno di Monti nel momento più difficile attraversato dall’Italia, dai suoi cittadini, dai lavoratori negli anni del secondo dopoguerra c’è solo il vuoto, il vuoto della proposta politica s’intende. E si dovrà pur dire – anche se adesso per ovvie ragioni se ne parla poco – che l’idea leghista delle ultime settimane, dinanzi a un barcollante alleato Berlusconi, è stata quella di ritornare alla secessione. La secessione, appunto, dopo che uno stiracchiato (anche etimologicamente) federalismo fiscale e municipale è svaporato sotto i colpi delle manovre tremontiane. La secessione come risposta all’Europa, alla moneta comune, alle speculazioni finanziarie, alla crisi economica globale. Tacendo, per carità, del debito pubblico italiano di quasi duemila miliardi di euro, che qualcuno si dovrà pure accollare, ancorché in un’Italia divisa a metà.

Certo, tra qualche tempo – presto – si tornerà a votare come auspicano Bossi e i suoi. Magari con una legge elettorale migliore. E soprattutto, dopo i tanti pizzicotti che ci siamo dati, più svegli e consci d’avere dormito e sognato in una notte troppo lunga.

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