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Storia

IL LUNGO VIAGGIO DI CALOGERO MARRONE

FRANCO GIANNANTONI - 25/01/2013

Quando le speranze di vedere riconosciuto a Calogero Marrone, il capo dell’Ufficio Anagrafe e Affari Civili del Comune di Varese, assassinato a Dachau il 15 febbraio 1945, il titolo di “Giusto fra le Nazioni”, il massimo tributo che Israele, attraverso Yad Vashem, concede a chi “a rischio della vita aiutò gli ebrei negli anni dell’occupazione nazifascista”, erano tramontate, improvviso è giunto l’annuncio.

Una lettera inviata all’Ambasciatore d’Italia a Tel Aviv Francesco Maria Talò dal direttore dello Yad Vashem Irena Steinfeldt e per conoscenza a chi scrive e a quattro altre personalità fra cui l’Ambasciatore di Israele in Italia Livia Link, riferisce che il 20 dicembre 2012 la Commissione, presieduta da un giudice del Tribunale Supremo dello Stato di Israele, ha deciso che Calogero Marrone sia compreso a pieno titolo nell’albo dei “Giusti fra le Nazioni” e debba essere in eterno onorato con la sua fotografia nel Tempio dei Martiri accanto ad altre centinaia di uomini e donne che morirono per la causa ebraica.

In una cerimonia pubblica che l’Ambasciata di Israele a Roma terrà a Varese (l’augurio è in Comune) nei mesi prossimi saranno consegnate a un familiare prossimo di Calogero Marrone la grande medaglia e il diploma.

La figura di Marrone per decenni era stata completamente ignorata sino a quando il 1° ottobre 1994 per iniziativa del comandante partigiano “Claudio” Macchi e dell’ANPI, del sindaco leghista Raimondo Fassa e dell’avvocato Giorgio Cavalieri a nome della Comunità Ebraica varesina, era stata affissa una lapide proprio all’entrata dell’Ufficio di Palazzo Estense dove Calogero Marrone lavorò dal 1931, quando vincitore di un concorso, si trasferì da Favara in provincia di Agrigento sino nel cuore del profondo Nord. Era sposato e aveva quattro figli, Filippa, Brigida, Salvatore e Domenico. Solo pochi anni fa l’amministrazione Fontana ha deciso di intitolare a Calogero Marrone una piazzetta-giardino alle spalle del Liceo Musicale nell’area Cagna, senza alcun numero civico, con una targa da cui è difficile capire cosa fece Marrone definito “Giusto fra i Giusti” (titolo non previsto nella terminologia ebraica), perché fu ucciso e chi lo perseguitò. Una motivazione che sembra voler dribblare la vera storia e celare il tratto della vittima (sbagliata fra l’altro la data di nascita che è l’8 maggio 1889 e non come scritto il 12 maggio).

Recita testualmente: “Capo Ufficio Anagrafe del Comune di Varese offrì aiuto e sostegno a centinaia di fratelli (?) perseguitati dalla tirannide (quale?). Tradito, arrestato (da chi?), deportato (da chi?) morì in un campo di concentramento tedesco (campo di sterminio!) senza mai abbandonare la propria dirittura morale e la propria dignità. La Città di Varese memore e deferente lo onora”.

Nel settembre del 1943 all’apparire dei primi tedeschi a Varese senza alcuna resistenza – prima le SS di Manfred Gauglitz poi i militari della Guardia di Frontiera del V° Grenzwache di Innsbruck al comando del Commissario Doganale Werner Knop – Calogero Marrone iniziò la sua coraggiosa attività a favore degli antifascisti e soprattutto degli ebrei che si ammassavano in zona, provenienti da ogni comunità dell’Alta Italia, per raggiungere la Svizzera.

Qualcuno lo tradì. L’avvocato Domenico Castelletti, il Podestà fascista di Varese, il 31 dicembre lo sospese cautelativamente dall’ufficio in attesa che le indagini interne circa le accuse mosse dal Comando tedesco (consegna di carte d’identità in bianco) fossero terminate. Marrone non fuggì per non mettere a repentaglio la sua famiglia nella casa di via Damiano Chiesa (ora via Sempione) malgrado fosse stato informato qualche ora prima da don Luigi Locatelli, canonico di San Vittore, di un possibile arresto.

Il 7 gennaio 1944 il Commissario di Dogana Werner Knop accompagnato da altri ufficiali, bussò alla porta di casa e lo arrestò. Marrone, prima di partire, chiese il tempo per fare la valigia, mise dentro un pigiama, il rasoio, lo spazzolino da denti, un golf, abbracciò la moglie Giuseppina e i tre figli (Salvatore era già in Svizzera) e se ne andò, iniziando quella che in una lettera dal carcere chiamò la sua “Via Crucis” nella speranza, aggiunse, che non dovesse un giorno “salire il Golgota”.

Di Marrone alla fine della guerra, prima dell’oblio totale, si conoscono solo due atti ufficiali: il primo, la delibera del 28 aprile 1945, con cui la Giunta comunale del sindaco comunista di Varese Enrico Bonfanti, nella presunzione di un suo ritorno, revocò la sospensione cautelativa dal grado e dalle funzioni inflitta al capo ufficio, reintegrandolo nel posto di lavoro e compensandolo degli stipendi perduti; il secondo, la lettera, sempre di Bonfanti del 15 giugno 1945 alla signora Giuseppina Marrone con la notizia della morte del marito “che ha spezzato di colpo la fidente attesa del fedele prezioso collaboratore di lavoro”.

Posta la lapide circa vent’anni fa, chi scrive (con il collega Ibio Paolucci), pensò di riportare alla luce come si trattasse di un’operazione archeologica la storia di quest’uomo, radici siciliane proprio mentre esplodeva in Lombardia la volgare canea leghista contro “terroni” e extracomunitari. Lo scopo era di far emergere il tratto generoso di un rappresentante del Sud che aveva sfidato il nazifascismo a viso aperto per dare una mano ai sofferenti, tutti del Nord.

Uscì nel 2002 il nostro libro “Un eroe dimenticato” stampato da Arterigere, una piccola, rigorosa casa editrice locale, il libro andò bene (tre edizioni) ma in quella che definisco da sempre “la città di gomma” che incassa tutto, buono e cattivo che sia, senza un batter di ciglia, non favorì come auspicavamo un dibattito sulle responsabilità italiane della Shoah. Silenzio da sinistra a destra. Tema spinoso, malgrado il tempo trascorso.

Seguì allora l’idea di battere la strada impervia di un riconoscimento che definisse nel tempo e nella storia il ruolo di Marrone. La sola era che Yad Vashem, il Museo dell’Olocausto di Gerusalemme, lo riconoscesse “Giusto fra le Nazioni”, il massimo titolo di Israele. Il tempo trascorso non favoriva l’impresa soprattutto perché la Commissione del tempo (era il 2003) fece sapere attraverso l’Ambasciata di Israele a Roma, dopo aver letto il libro, che occorreva disporre di alcuni testimoni. Come fare? Dove potevano essere, se fossero stati vivi, i “beneficati” da Marrone? Si erano salvati? Dove abitavano?

La chiave per penetrare dentro il grande mistero ci fu offerta da un varesino, un ebreo misto (figlio di ebreo e di ariana), l’ingegner Renzo Russi, un amico, scomparso da un anno. Figlio dell’ingegner Ugo Russi, ebreo triestino, vice direttore della “Società Varesina Imprese Elettriche”, madre ariana e cattolica Carolina Stolfa, altri dieci fratelli, il 17 settembre 1943, appena diciottenne, riparò in Svizzera passando da Saltrio. Gli altri fratelli divisi in due gruppi, uno guidato dalla madre con i figli più piccoli, l’altro dal padre con i più grandi, rispettivamente da Monte Olimpino sopra Como e da Campocologno sopra Tirano, si misero in salvo. Tutti con le carte di Marrone che ne coprivano l’identità ebraica.

Renzo stese la sua testimonianza giurata presso un notaio di Varese, così la sorella Rosanna, professoressa di lettere. Si aggiunse una cugina dell’avvocato Giorgio Cavalieri, Laura Pizzo Centonze, che malgrado avesse i documenti di Marrone procurati dal padre, non passò il confine ma visse tutti i seicento giorni di Salò a Mondonico, il paesino in alta Valganna senza correre rischi.

Gli ebrei testimoni di Marrone erano dunque tre. Gli altri sconosciuti, probabilmente lontani, in altre città, deceduti. All’elenco dei tre facemmo aggiungere le testimonianze di due “ariani” che collaborarono da vicino con Marrone, che di lui sapevano, che da lui avevano ricevuto non solo carte ma in un caso anche un arma: Quinto Bonazzola, studente universitario, figlio del dentista Carlo, con studio in piazza Monte Grappa, gappista a Varese e poi successore di Eugenio Curiel nel “Fronte della Gioventù” a Milano (ricevette il mitra da Marrone in un bel pacco regalo tipo-Natale in via Mercadante) e Elda Velia Brusa Pasquè, coraggiosa studentessa, figlia di Alfredo Brusa Pasquè, una delle figure più limpide dell’antifascismo varesino di fede socialista.

Cinque testimonianze che, giunte a Gerusalemme, furono lette, valutare, apprezzate. Ma una telefonata del professor Grishim, presidente della Commissione, mi raggelò: occorrevano altri “beneficati”! Il carteggio era debole. Ma dove trovarli altri amici anche perché il tempo trascorso non lasciava molte speranze. “Professore trovarne altri è un’impresa. Cercherò”. Seguì il silenzio poco rassicurante.

Domenico Marrone, il figlio di Calogero, che mi aveva aiutato nella ricerca documentaria per il libro, garbatamente e regolarmente mi telefonava per sapere della “pratica”. L’imbarazzo e la sofferenza erano tante: “Caro Domenico, nessuna nuova”.

Yad Vashem dopo una ricca infornata di riconoscimenti a cavallo degli anni ’70-’80, aveva stretto i freni, Coloro che, come nel caso di Marrone, per ragioni non sempre comprensibili, non avevano mosso le acque in periodi precedenti, erano ora fuori gioco.

Quest’estate la svolta inattesa e decisiva. In preparazione del viaggio di Stato previsto per l’autunno il Ministro della Giustizia avvocato professor Paola Severino, il Sottosegretario professor Salvatore Mazzamuto (uno dei maggiori civilisti italiani) e il segretario, dottor Francesco Patrone, magistrato, hanno fatto il bilancio dei “casi” sospesi presso Yad Vashem procedendo ad un’ulteriore istruttoria a sostegno della giustezza delle richieste (con Marrone, le pratiche di don Pietro Pappagallo, trucidato alle Ardeatine, del maresciallo dei Carabinieri di Pistoia Felice Faraglia, del nonno materno dell’onorevole Veltroni, Cyril Kotnik).

Il “caso” Marrone fu ridefinito, arricchito, integrato. Soprattutto ebbe un peso rilevante l’osservazione (sostenuta da chi scrive) che anni fa, un altro varesino, la dottoressa Anna Sala, moglie dell’avvocato Mario Gallini, vice prefetto della Liberazione, insignita dello stesso titolo per aver salvato l’intera famiglia del Rabbino capo di Padova Paolo Nissim, nascosta a Cunardo e salvatasi, dichiarò che i documenti che servirono alla sua impresa li aveva avuti proprio da Marrone! (fatto presente nella motivazione ufficiale).

A ottobre la Delegazione Italiana ha visitato Yad Vashem e il Tempio dei Martiri. Paola Severino ha commentato: “Sono sconvolta e commossa”. In tempi rapidi l’annosa e tormentata istruttoria si è conclusa. Yad Vashem riconosce nella lettera di conferimento l’aiuto del Governo Italiano.

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