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Attualità

IL DOPING MALATTIA “STORICA” DEL CICLISMO

CESARE CHIERICATI - 01/02/2013

La confessione televisiva di Lance Armstrong, l’ex campione statunitense vincitore di sette consecutivi Tour de France e le dichiarazioni al giudice iberico Julia Santamaria del medico sportivo Eufemiano Fuentes coinvolto nell’ormai famosa “Operacion Puerto” in cui rimase impigliato, pagando con due anni di squalifica, anche il varesino Ivan Basso, sono due facce della stessa medaglia. Ed entrambe ci dicono una cosa sola: che la lotta al doping pur avendo segnato molti punti a proprio favore (controlli più stringenti ed esilio per alcuni apprendisti stregoni) é ben lontana dal vedere la luce in fondo al tunnel.

Sono passati quindici anni dallo scandalo Festina, esploso al Tour del ‘98, nove dalla tragedia di Pantani ma sotto traccia, nelle penombre delle camere d’albergo e, meglio ancora, negli inavvicinabili motor home, le pratiche fuori legge sono andate avanti. Il texano, dopo anni di ostinati dinieghi, racconta esplicitamente che ogni suo Tour è stato segnato da illeciti a base di epo, testosterone, cortisone e via elencando mentre il dottor Fuentes allarga il campo del gioco sporco dichiarando alla stampa spagnola che nel 2006 prestava consulenze a singoli atleti, ciclisti, calciatori, pugili, utilizzando diversi recapiti per depistare eventuali quanto improbabili detective. Tra l’altro al medico furono sequestrate ben duecento sacche di sangue della facoltosa clientela. Tra i protagonisti del processo c’è anche il plurivincitore di Tour, Giro e Vuelta, Alberto Contador reduce pure lui da una squalifica (2011) per positività a una sostanza proibita.

Non è il caso comunque di intonare il “de profundis” per il ciclismo, marchiato a sangue dal doping di questi ultimi vent’anni, anche se becchini e piagnoni affollano le pagine dei giornali e gli schermi televisivi. In realtà spesso si tratta delle stesse persone – dirigenti, giornalisti, tecnici – che troppo spesso hanno innalzato le bandiere della retorica e cantato in allegria “le laudi” delle due ruote senza mai chiedersi cosa ci fosse dietro le prestazioni degli atleti, diventate, col trascorrere del tempo, sempre più incredibili. Andava bene a troppi – giornali, televisioni, pubblicità e sponsor – un ciclismo di tutti campioni, un ciclismo che tendeva a cancellare le gerarchie atletiche e nervose, votato a medie orarie spaventose, teso a dilatare con ogni mezzo i propri limiti. Tutti intuivano e alcuni sapevano ma la regola era il silenzio affinché lo spettacolo potesse andare avanti indisturbato. Non è possibile credere infatti che colleghi, con parecchi lustri di professione al seguito delle corse, non si fossero mai accorti di nulla, non avessero capito che la medicina sportiva stava degenerando in pratica autolesionistica, in delirio farmacologico.

È vero, lecito e illecito nel ciclismo si fronteggiano dal secondo dopoguerra in una spirale infinita che gli organismi di governo della categoria – UCI in primis – mai hanno voluto spezzare. A partire dagli anni novanta vi è stata comunque un’accelerazione rovinosa – ovviamente propiziata dai progressi della ricerca – rispetto ai decenni precedenti dove il doping era più soft. Ciò tuttavia non impedì, nella lontana estate del 1967, al campione inglese Tommy Simpson di morire di fatica e di stimolanti (amfetamine) sulle micidiali rampe del Mont Ventoux. In diretta eurovisione. Una tragedia che non insegnò nulla ma che ancor oggi rammenta come il filo rosso delle sostanze dopanti corra come un fiume carsico nella storia agonistica delle due ruote, una sorta di inseguimento guardie e ladri dove i ladri, con il conforto della scienza piegata a cattivi usi da rilevanti interessi economici, sono sempre un passo avanti e dove invece le guardie, con allarmante frequenza, si sono per troppi anni limitate a imitare le tre mitiche scimiette del “non vedo, non sento, non parlo”.

Diciamola tutta, se non fosse intervenuta la magistratura francese prima, quella italiana, quella iberica e infine le autorità USA, il ciclismo di Frankenstein costruito negli ultimi decenni sarebbe ancora lì a raccontarci favole “rosa”, “gialle” e “amarillo” grazie alle narrazioni del tutto acritiche e complici di prezzolati mentori ufficiali.

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