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Storia

L’ARCHIVIO DEI VINTI DELLE LANGHE

FRANCO GIANNANTONI - 29/03/2013

Duemila ore di registrazioni fatte da Nuto Revelli, ufficiale degli alpini nella disastrosa campagna di Russia e poi popolare comandante partigiano di “Giustizia e Libertà” nell’amato Piemonte scomparso nel 2004 a ottantacinque anni, oltre tre ore per intervista, interminabili chiacchierate attorno al fuoco di un camino di pietra e davanti a una “boccia” di rosso delle Langhe, Barolo o aristocratico Barbaresco. Vere e proprie confessioni, parole tirate fuori lentamente e con fatica, quasi dovessero per sempre restare dei segreti. Raccontano tutte, con tratti diversi, inflessioni vocali ora alte ora lievi, la vita dei “senza storia” e dei “dimenticati di sempre”, la voce dal vivo raccolta con il vecchio magnetofono di “vinte” e “vinti” delle colline, delle pianure, delle vallate montane segnate dalla guerra, dalla fame, dall’abbandono dei giovani, dalla solitudine dei vecchi “quelli che hanno visto”.

Quei nastri mai ascoltati, solo in minima parte utilizzati, a cominciare da “La guerra dei poveri” (“mi piace incontrare la gente in cui credo, mi piace continuare il mio dialogo, quel dialogo che non si è mai interrotto”), per poi andare al “Mondo dei vinti” nel 1977 e ancora nel 1985 con la introduzione de “L’anello forte”, offrono lo spaccato, oggi quasi irreale tanto il mondo si è imbastardito, della popolazione contadina, donne e uomini della campagna del Cuneese con tribolazioni, soprusi, amarezze, sconfitte e lampi di una serietà invitta.

Ecco allora apparire il volto della grande, povera, dignitosa Italia che, uscita in ginocchio dall’avventura fascista, era alla ricerca della via del riscatto e della rinascita economica.

Oggi quel patrimonio, uno dei maggiori archivi italiani di storia orale, vede la luce presso la Fondazione Nuto Revelli di Cuneo, la città medaglia d’oro della Resistenza Italiana, la patria di Duccio Galimberti, di Giorgio Bocca, di Dante Livio Bianco, per l’impegno di un gruppo di ricercatori e studiosi coordinato da Antonella Tarpino, moglie di Marco Revelli, figlio di Nuto, e l’evento ha il sapore di una vittoria per chi ha creduto da sempre nel recupero delle radici patrie, troppo colpevolmente dimenticate.

Un Archivio già ricco di storie palpitanti di chi uscì vivo dall’inferno del Don, dai Balcani, dall’Africa, dalle isole Egee, da chi riemerse da un lager, da chi salì in montagna per cacciare il nazifascismo rischiando la vita. “Al momento della pubblicazione de “Il mondo dei vinti” e “L’anello forte”- spiega Antonella Tarpino, vincitrice dell’ultimo Bagutta con “Spaesati” edito da Einaudi – Nuto Revelli fece delle selezioni e delle scelte del materiale a disposizione. In certi casi poi, per pudore e rispetto delle persone ascoltate, preferì non fare conoscere alcune di quelle testimonianze perché troppo crude, troppo private oppure troppo riconoscibili”.

Il 23 marzo Antonella Tarpino e la collaboratrice Beatrice Verri al Centro Documentazione Territoriale di Cuneo – nel corso del Convegno “Storie di donne nel Cuneese” promosso dalla Fondazione Revelli e dall’Archivio delle Donne in Piemonte, dall’Istituto Storico della Resistenza e dal Laboratorio Archivio delle donne di Paraloup, un borgo alpino fatto di poche baite in corso di restauro, fra le Valli Stura e Grana, dove si formarono dopo l’8 settembre del ’43 le prime bande partigiane – hanno presentato alcune di quella carte al pubblico, molto numeroso e come dire rapito dalla magia dell’avvenimento, dall’aria calda, solidale che si respirava.

La Tarpino ha spiegato nel dettaglio l’anima di questi scritti, la loro profondità, il verbo politico, sociale, culturale. Dalle interviste di Nuto Revelli alle contadine e alle montanare, emerge come comun denominatore la miseranda condizione in cui erano costrette a vivere, il loro essere “anello debole”, il punto più vulnerabile della piccola comunità alpina. “Vorrei essere un rovo”, aveva urlato al microfono dello scrittore, una donna vittima quotidiana della violenza animalesca del marito, incapace di liberarsene, di trovare la strada della salvezza. Un grido di dolore insopportabile, il volto del “vinto”, in questo caso femminile, che sa diventare vittorioso, austero, forte quando – e quel tempo giunse – le donne di quelle terre povere e dimenticate seppero rompere la catena che le univa agli uomini, rifiutandosi si legarsi a loro, di sposarli, decretando in quel modo il sorgere dell’universo dei “vinti”.

Alcune testimonianze, in un incontro non facilmente dimenticabile, sono state pubblicizzate. Tutte tremende nel senso che ti rivoltano le budella, ti spiegano l’inferno di quei giorni. Fra queste, la storia di una ragazza delle Langhe che lascia casa per andare a Torino a fare l’operaia e che non ha remore nel manifestare la sua avversione al regime, accusata dal marito, un violento, di essere una strega, una “masca” come si usava dire nel dialetto del posto.

“Quello delle “masche” – ha rivelato la Tarpino – era un vero codice comunitario, un patrimonio simbolico nell’universo femminile dei “vinti”, soprattutto nella Langhe. Era una spia di super-io, riguardava tutto quello che non andava fatto. In altri casi poteva rappresentare un’arma di difesa, a volte di presa in giro delle superstizioni e delle credenze popolari: una storia di “masche” per esempio racconta di una donna che aveva fatto credere di prendere “il libro del comando” o delle magie che invece altro non era che la raccolta di ricette da cucina”.

L’Archivio Revelli sarà reso pubblico col tempo. La Fondazione tra l’altro sta pensando di pubblicare entro l’anno alcune delle interviste ordinate per tema. Non è escluso neppure un Meridiano per questo grande storico dei “senza storia”, i poveri, i negletti, gli abbandonati, coloro a cui la vita ha riservato solo fatiche, ingiustizie e lutti.

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