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Il Viaggio

LA SCUOLA CHE GALLEGGIA

CARLO BOTTI - 19/04/2013

il lago Titicaca

Siamo fermi al molo da almeno dieci minuti. Più che un molo sono delle rocce che si appianano ed entrano dolcemente nell’acqua del lago. Il lago è il Titicaca, il lago più alto del mondo.

Insieme a noi ci sono cinque bambini e bambine, tutti ben sistemati e ordinati nelle loro divise scolastiche. Una gonna di lana di un rosso sgargiante con un maglioncino verde finemente decorato per le femmine e un gilerino nero con maglia bianca e pantaloni neri, in stile gesuitico, per i maschietti.

Lungo le rotaie si vede arrivare una persona a passo spedito. È Santos, il direttore della scuola. In pochi minuti arrivano anche  altri tre maestri.

In lontananza si scorge finalmente una barchetta di legno con due bambine, anche loro in divisa. Una sta remando verso di noi e capisco che quello è il nostro scuola-bus, o meglio, il nostro scuola-barchetta.

Non so come ma riusciamo a salire tutti a bordo, da una parte i ragazzi e dall’altra i professori. Santos prende subito in mano i remi, si posiziona al centro e comincia a vogare.

Ci stiamo dirigendo alla scuola galleggiante che si trova nell’arcipelago di isole dell’etnia Los Uros (“Quelli dell’aurora”). Questa popolazione vive su isole galleggianti fatte di “totora” (canne di bambù) a 14 km di distanza dalla città di Puno, porta peruviana sul lago Titicaca.

 Dal fondo del lago si staccano pezzi terra, alghe e canne, gli abitanti dell’ etnia Uro “catturano” queste zolle e, ricoprendole, unendole insieme le une con le altre, formano delle isole fluttuanti su cui hanno costruito il loro villaggio. Le capanne sono fatte tutte di canne di bambù. A ora si contano quasi cinquanta isole in cui abitano quattrocento persone più o meno. È un popolo che vive soprattutto di turismo e pesca e parlano correntemente due lingue: il castigliano e l’aymara. E come tutte le comunità si sono dotati di una scuola.

Dopo quasi un’ora di navigazione sballottante – a ogni minima onda il capovolgimento diventa una minaccia avvertita solo da me  – e di rotazione ai remi tra i vari professori, arriviamo all’isola adibita a scuola.

Sono quattro aule costruite in legno, ognuna su un’isola galleggiante e legate tra loro con corde. In mezzo a queste aule, disposte a cerchio, c’è un isola che funge da cortile interno della scuola.  Una volta approdati a poco a poco arrivano tutti gli studenti. Chi con la propria barchetta, chi invece correndo e saltando dalle isole vicine. È una scuola primaria, una nostra scuola elementare. In tutto sono cinquanta bambini. Vengono radunati all’interno del patio, si intona l’inno nazionale sotto il sole, vengo presentato ai ragazzi e via tutti di corsa nelle aule.

Siamo qui per svolgere il nostro minicorso di gestione d’impresa e poi, eventualmente, per consegnare i prestiti. Ifejant, la ong dove presto il mio servizio, lavora con questa scuola ormai da cinque anni e Carmen, la mia compañera di lavoro, è molto amata da tutti, genitori e studenti.

I bambini sono abili artigiani e tessitori, e sono quelli che hanno risposto al meglio al progetto di microfinanziamento con una restituzione del 100%  dei crediti concessi.

Oggi siamo venuti per organizzare le attività con i professori e per conoscere i ragazzi. Santos mi fa vedere le condizioni della scuola. Quest’anno la stagione delle piogge è stata particolarmente abbondante e la direzione, l’unica costruita su un’isola di terra secca, è stata quasi completamente allagata.

Al suo interno ci sono i computer e i documenti dei ragazzi. E c’è la centralina elettrica, alimentata da due giganteschi pannelli solari installati sul tetto. Hanno provato a cercare di entrare per mettere in salvo i computer ma, come dice Nicolas, il professore di matematica, fino a quando l’acqua non si abbassa non si può fare nulla. Quindi bisognerà aspettare almeno fino a giugno.

Anche un’altra aula è inagibile e così per fare lezione hanno dovuto spostare alcuni alunni in una capanna destinata originariamente alla mensa.

I bagni si trovano nel lolcale della direzione, e sono al momento irraggiungibili. Ma per i bambini, si sa, non è un problema, giù i pantaloni, su la gonna e via. Per i professori invece non ci sono molte alternative, bisogna trattenerla fino al ritorno sulla terraferma.

Mi aggiro per le aule. C’è una luce strana che entra dagli abbaini, quasi rosata. Nelle aule ci sono cartelli con l’alfabeto aymara, i principi di vita inca, e le foto degli eroi nazionali come Tupac Amaru e sua moglie: capi di una rivolta indigena contro gli spagnoli nel periodo coloniale.

Intanto nel cortile centrale Santos ha indossato la tuta e ha cominciato la lezione di educazione fisica con i bimbi più piccoli. È bellissimo vederli correre in cerchio con i piedi che affondano nelle canne di bambù e rotolarsi per terra.

In men che non si dica siamo già arrivati all’intervallo. I bambini escono correndo dalle aule. C’è chi si spoglia, rimanendo in pantaloncini, e si butta direttamente nel lago per una rinfrescata. Alcuni maschietti si sfidano all’interno delle aule lanciando con un filo trottole coloratissime; le femmine invece saltano con la corda e cantano come nel più classico dei giochi.

Viene servita la merenda consistente in un panino con una spalmata  di burro e una tazza di latte e quinoa (pianta erbacea quasi simile a un cereale dall’alto valore nutritivo).

Mi fermo un po’ a giocare con i bambini. Gli insegno alcuni giochi semplici con le mani e poi mi cimento in una partita di calcio tra le più faticose e divertenti della mia vita. I piedi sprofondano nelle canne di bambù, a ogni corsetta il fiato mi scompare (siamo a quasi 4000 metri) e a ogni tiro bisogna buttarsi in acqua per recuperare la palla.

Senza che me ne accorga la giornata di scuola è finita.

Ci ritroviamo di nuovo sulla barchetta pronti al ritorno. Le bambine si dilettano nel pettinare e cambiare la acconciatura di Carmen. I maschi cominciano a cantare canzoncine in varie lingue: francese, aymara, quechua, italiano (Fra Martino) e giapponese!

I  professori invece mi chiedono alcune parole di italiano e rimangono stupefatti dalla somiglianza di alcune di esse con il castigliano.

Io provo a esprimere loro tutta la mia ammirazione.

Nicolas, Jaime, Santos, Roberto e Claudia ogni giorno si svegliano prestissimo, si recano sul loro luogo di lavoro con una barchetta di legno a remi. Lavorano con bambini senza alcun tipo di comodità e agevolazione e tornano alle loro case, che si trovano a Puno, per le tre del pomeriggio dopo una camminata lungo le rotaie fino alle fermata degli autobus più vicina.

Non hanno alcun tipo di aiuto da parte dello stato o da ong sia nazionali che straniere. Ricevono uno stipendio da insegnanti minimo (non dico quant’è in euro  per decenza) e non da insegnanti che lavorano in zona rurale come sarebbe giusto. Non hanno neanche i soldi per comprare un motore da mettere alla barca. Non li ho mai sentiti lamentarsi e, sembra banale, durante tutto il tragitto fino alla scuola e durante le ore di lezione sono sempre stati gioiosi, pronti a fare battute scherzose e a sorridere.

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