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Il letto di Procuste

IL SEMAFORO ROSSO

LUIGI FASOLINO - 07/06/2013

Una delle quattro o cinque cose più divertenti in assoluto sta nel lanciare con il giusto movimento del braccio un sasso nell’acqua e guardare quanti saltelli fa sulla superficie prima di scomparire. Oltre a un gioco, anche una metafora? Può darsi.

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Il semaforo diventa rosso, mi fermo e mi giro distrattamente verso l’auto che si affianca, una falsa sportiva con la forma raccolta e semiellittica di un cane che evacua. L’uomo al volante assomiglia a mio padre in modo stupefacente. È identico a lui e non posso fare a meno di guardarlo con attenzione e con un certo turbamento, sicuro comunque di trovare nei lineamenti un particolare discordante, qualcosa in grado di sospendere i segnali che i fotorecettori degli occhi non smettono di spedirmi al cervello. Ma non è così. In modo sistematico i dettagli della memoria visiva si sovrappongono uno dopo l’altro a quelli della realtà e per quanto sia assurdo – il termine giusto è implausibile – devo prendere atto del risultato. Quello è mio padre, lo confermano l’attaccatura dei capelli, la linea del naso e la piega della bocca, la curvatura del mento, l’arco delle sopracciglia e gli occhiali con le lenti senza montatura, persino le dita che picchiettano sul volante rivestito di pelle. Mi chiedo se inconsapevolmente ho attivato una risonanza morfica, se ho compiuto senza volerlo un salto quantico verso una dimensione ancora più balzana di quella in cui galleggio da quando esisto. Il semaforo è sempre rosso, ma il tempo scorre, devo sbrigarmi. Mi inclino acrobaticamente verso il finestrino e batto il palmo della mano sul vetro. “Papà, papà”, mi sento gridare. Il semaforo diventa giallo, l’uomo mi guarda e sorride, sembra divertito dalla confusa ingenuità con cui tento di gestire le due certezze: che lui è mio padre e che se fosse vivo avrebbe centododici anni – oltre al fatto che non si sarebbe mai seduto su quell’automobile ovoidale. Al rosso schizza via con la velocità di un neutrino e io resto lì privo di riflessi finché non sento alle spalle le trombe del Giudizio. Tutto è durato meno di un minuto. Ci si può chiedere se questa storia, che sembra un sogno pur non essendolo, avrebbe potuto avere un altro finale, ma ne dubito. La cosa sicura è che, sia pure in circostanze e con intensità diverse, prima o poi capita a tutti.

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Business Insider colloca la Nepal Airlines al quindicesimo posto fra le peggiori compagnie aeree del mondo nella classe economy (la peggiore in assoluto sarebbe la Turkmenistan Airways). Eppure la compagnia nepalese, gestita dal governo, fa di tutto per garantire ai passeggeri voli confortevoli e soprattutto sicuri, operando non solo sul piano tecnologico, ma anche – perché è bene non accontentarsi – su quello metafisico. All’aeroporto della capitale Kathmandu, tanto per dire, due belanti e innocenti capre sono state portate sulla pista, di fronte a un Boeing 757 con qualche indefinito problema tecnico, e sacrificate a Akash Bhairab, il dio hindu che governa il regno dell’atmosfera. La stessa compagnia ha poi informato la Reuters che dopo la cerimonia l’aereo è regolarmente decollato alla volta di Hong Kong, dove è atterrato senza difficoltà. La fede fa miracoli, l’importante è credere.

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