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Il letto di Procuste

L’UTOPIA A BORDO

LUIGI FASOLINO - 22/11/2013

“È come l’intelligenza, la follia, lo sai? Non si può spiegarla, proprio come l’intelligenza. Ti viene addosso, ti riempie di sé, e allora la capisci. Ma quando ti abbandona, non la capisci più” (Emmanuelle Riva, Hiroshima, mon amour).

***

Ci sono molti posti a sedere, ma l’uomo resta in piedi e durante la marcia oscilla reggendosi a un sostegno. Lo osservo da dietro il giornale, come una spia. Ha strani occhi chiari ed è alto e magro, sui quaranta. Veste con una certa eleganza, anche se il soprabito male abbottonato dà al suo corpo un aspetto sbilenco. Da quando è salito borbotta parole indistinte, intercalando il proprio monologo con brevi scoppi di risa. La sua mimica facciale è una mappa di emozioni precipitose. A tratti serra le palpebre e le labbra in una smorfia che potrebbe essere di sofferenza, ma anche di ilarità soffocata. “Utopia!”, sbotta all’improvviso. “Utopia, utopia!”, ripete con voce più alta.

Per qualche ragione sugli autobus di tutto il mondo salgono gli esseri umani più distanti dalla presunta linea della normalità, ma quel tipo non sembra lo psicotico pericoloso per sé e per gli altri e neanche l’ubriaco con la sbornia aggressiva, per cui dopo una rapida occhiata i pochi passeggeri si ritirano nella loro indifferenza, picchiettano sui cellulari o guardano senza interesse il volto autunnale della città. Una ragazza con i capelli color ciclamino e una schiera di piercing ai sopraccigli si dirige verso l’uscita. “Quello lì è fuori”, commenta caracollando sulle insidiose scarpe a doppia zeppa. “Ma sì, vai pure, bella” – la voce dell’uomo risuona acuta – “sgambetta dietro alla felicità. Inseguila pure, tanto non servirà a niente. Non sarà tua né oggi né domani né mai. La felicità non esiste, è solo utopia. U-to-pi-a!”.

L’autobus si ferma, le porte si aprono e la ragazza mentre scende alza la mano mostrando il dito medio. “Avete visto?”. L’uomo parla con enfasi, a scatti. “Si crede diversa e invece no. È come tutti gli altri. E anche voi, cari miei. Credete di essere unici, ma non è così. Macché. Siete come i mattoncini del Lego. Anche l’autista. Proprio non vi rendete conto. Pensate di essere una cosa però siete un’altra”. Ha un grumo di bava agli angoli della bocca, zittirlo sarebbe come voler rimettere il tappo a una bottiglia di spumante. Insegue la sua logica tormentata mentre spiega con esultante fermezza che il pianeta Terra è l’inferno e gli umani sono incongruenze spazio-temporali che stanno scontando le loro colpe, e che il paradiso esiste, ma si trova in un altro universo, su un atollo ipersiderale senza medici, né pillole, né genitori che non smettono di fissarti, né piccioni che tentano di cavarti gli occhi. “Vale per tutti”, puntualizza. “Anche per lei, che fa finta di leggere”. Colto in fallo, sto per dire qualcosa. Ma decido di stare zitto, pensando all’eventuale scintilla prodotta dalla collisione fra le mie parole e quello che lui ha in testa. L’autobus si ferma, le porte si aprono. Abbasso il giornale e guardo l’uomo che se ne va, prigioniero della sua nube.

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“Il pazzo intelligente, quando è guarito, che cosa fa? Finge di essere ancora pazzo” (Totò, Il medico dei pazzi)

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