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Cultura

“NEI PASTICCI PER UN PRETE”

ANNALISA MOTTA - 19/07/2013

“Gli esperti me l’avevano detto chiaramente: se crocifiggo un sacerdote in pubblico, avrò successo e importanti premi. Se invece parlo bene di un prete, vanno a crocifiggere me. Beh, questo è un problema…”. Gli occhi chiari e ironici di Juan Manuel Cotelo, regista di questa pellicola del 2010 che sta facendo il giro del mondo senza case di produzione né di distribuzione, ti guardano dallo schermo fissando te, spettatore, proprio come se foste tu e lui a chiacchierare nel suo studio. È l’inizio di un film che – a prima vista – di spettacolare ha solo le riprese mozzafiato del Moncayo, quell’ultima cima del Sistema iberico che don Pablo Dominguez non aveva ancora scalato, e sul quale trova la morte nel 2009, a soli quarantadue anni.

Perché il film parla proprio di lui, di questo giovane prete spagnolo, decano della Facoltà di Teologia di San Damaso, e della sua vita che – è sempre Cotelo a parlare – “si potrebbe pensare non sia adatta per fare un film: non è pedofilo, non è donnaiolo, non è esorcista, non è missionario nella giungla…”. E invece, una lunga serie di circostanze e fatti inattesi innescano una curiosità e una voglia di raccontare che Manuel, regista di professione, non può ignorare.

Tutto nasce da un favore, fatto malvolentieri a un amico, di filmare la conferenza di uno sconosciuto teologo, don Pablo appunto, a un convegno: Cotelo registra, ma in realtà è tutto preso dalla sua nuovissima telecamera, e parla due minuti soltanto con il relatore, giusto per conoscerlo. Dodici giorni dopo, don Pablo muore in montagna, e al suo funerale partecipano tremila persone e ventisei vescovi: ma cosa aveva dunque di speciale questo sacerdote? E da questa strana curiosità, Cotelo va a rivedersi la conferenza, rimane colpito da questo prete che “ha osato dire che per credere in Dio si deve usare la testa”, e va a cercarne amici e conoscenti, anzi molti li incontra per caso, negli ambienti più strani e diversi. Finché decide di raccontarne la vita, “perché Pablo è stato un buon prete”.

Tutto qui? Beh, non proprio: “Indagare su un prete è rischioso”, spiega Cotelo “perché prima inizi con uno, poi inizi a domandare su tutti i preti, ne vuoi sapere di più della fede, sulla Chiesa, e finisci per chiederti cosa c’entra Dio in tutto questo. E poi vuoi raccontarlo”. E la storia di don Pablo diventa la storia della riscoperta della fede da parte di un artista curioso, e della meraviglia di un Dio presente nella vita di ogni giorno. Il film non è eccezionale, dicono i critici, nonostante abbia già ottenuto due premi di prestigio: avrebbe una colonna sonora carente, una fotografia approssimativa. Eppure sta girando in tutta Italia, al di fuori dei circuiti commerciali, con il ritmo di una-due proiezioni al giorno, da quando – un altro caso fortuito – un insegnante di educazione musicale fiorentino, Francesco Travisi, ne rimane così colpito da offrirsi di scrivere le didascalie in italiano, per facilitarne la diffusione nel nostro paese. E Cotelo commenta: “Me lo diceva mia mamma: Non so figlio mio perché vuoi cacciarti in questi pasticci”.

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