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Divagando

LA BATTAGLIA DI GHIACCIO

AMBROGIO VAGHI - 08/11/2013

16 giugno 1940: Ambrosiana vs Milan 1-3

Come nasce, dove origina una passione sportiva? Bella domanda, di risposta ancor più complessa se si tratta di tifo calcistico. Potremmo scomodare il grande pensatore ginevrino Gian Giacomo Rousseau e ritenere che anche a questo proposito il bambino nasca “selvaggio” e a condizionarlo siano poi i genitori, l’ambiente, la condizione sociale eccetera. Ragione per cui per uno nato a Milano la passione calcistica non può che essere rivolta verso il Milan o l’Inter. Ai miei tempi era infatti così anche se qualche sparuto gruppetto tifava per la “Atalanta Bergamasca” o addirittura per il Napoli. Frutti di immigrazioni recenti che incominciavano a lasciare segni calcistici.

Eppure la mia prima passione fu per… il Rapid. Non per l’austriaco e titolato Rapid di Vienna ma per una ben più modesta squadra giovanile, una tra le tante che giocava sui campi sistemati in fondo a Via Ponzio dietro il campo della Safar, appena dopo la nuovissima piscina comunale, passata la Città degli Studi. Erano squadre nate accanto a parrocchie, dopolavori aziendali o quartieri cittadini. Assumevano nomi di strade (la Aselli) di fantasia (la Fulgor, l’Olimpia) oppure risonanti nomi stranieri di squadre che andavano per la maggiore nel continente disputando la Coppa Europa.

Tra queste primeggiavano i nomi di compagini dell’eccellente scuola calcistica danubiana come il Ferencvaros e, appunto, il mio Rapid. Mio non perché ci giocavo, non ne avevo l’età, ma perché ci giocava il mio amico Carletto, di tre anni maggiore, che accompagnavo ogni domenica. Sempre lì in Via Ponzio. Non c’erano trasferte nel campionato. Tutte le partite si giocavano sui sei campi tracciati uno vicino all’altro, senza recinzioni, con due soli spogliatoi. Le partite venivano organizzate in modo da evitare contemporanei incontri in campi contigui evitando che palloni in uscita passassero da una partita all’altra. Cosa che, per la verità, talvolta avveniva, con supplemento di divertimento. Una organizzazione, quella, per il gioco giovanile ed amatoriale che cinquant’anni più tardi ho scoperto ancora in auge in Inghilterra, addirittura alla periferia di Londra. Niente campi recintati, niente pass per l’entrata di campo, niente numeri sulle maglie dei ragazzini, niente verifiche ai tacchetti od estreme norme di sicurezza per evitare scontri. Norme che oggi sono imposte dalla Federazione Gioco Calcio anche per modeste partitelle del settore giovanile. Niente “scuole calcio” allora, diventate oggi un business con le famiglie che si pagano tutto, dalle “lezioni” all’abbigliamento sportivo.

Erano i tempi della vera passione, dell’impegno, delle prime emozioni. Su quei campi poi abbiamo imparato le prime parole d’inglese. Direi che allora sui campi non ci si intendesse che in quella lingua. Non solo per il goal. Sapevamo tutto dei penalty, degli hands, dei corners o degli off side che li procuravano. E di come si era messi in campo: il back, l’half, il central-half, half-back. Anche l’allenatore per noi non era ancora il mister ma il trainer. Insomma una enormità di vocaboli inglesi (della cui pronuncia un po’ meneghina meglio non parlarne!) ai tempi del trionfante fascismo che per altro ce la metteva tutta per eliminare ogni riferimento linguistico alla odiata Albione. Di questo indirizzo nazionalistico aveva fatto ovviamente le spese anche il grande calcio. Scomparvero così le sigle F.B.C. ( foot ball club ) e soprattutto le denominazioni scomode che potessero richiamare il mondo o, peggio, l’antifascismo. L’Internazionale FBC per esempio, l’Inter, divenne forzosamente l’ “Ambrosiana”. La mia passione interista nasce appunto dai tempi dell’Ambrosiana attorno ad un campioncino di quella squadra.

All’Istituto Virgilio che frequentavo a Milano, studiava anche un ragazzo di qualche anno maggiore di me, Aldo Campatelli. Appunto quello divenuto assai noto come colonna della famosa mediana Locatelli-Olmi-Campatelli. L’ Aldo cresciuto nelle giovanili dell’ Ambrosiana giocava già nella squadra delle “riserve”, ma al lunedì era quasi sempre puntualmente a scuola. In attesa che aprissero i cancelli lo circondavamo facendoci narrare fatti e misfatti della sua partita domenicale. Pendevamo dalle sue labbra dal momento che allora il grande calcio bisognava apprenderlo quasi esclusivamente dalla rosea Gazzetta. Pochi seguivano le radiocronache di Nicolò Carosio dagli scarsi apparecchi in funzione e ancora meno erano coloro che potevano permettersi il biglietto d’ingresso alla stadio. Che pure qualche volta giungeva, offerto da un amico o pagato con la nostra mancetta.

Lo stadio come luogo di incontro-scontro delle tifoserie. Direi più di incontro che di scontro perché il tifo non debordava certo nelle follie e nelle violenze, non solo verbali, di oggi. Gli sfottò non sono mai mancati, ma si poteva andare alla partita, e assistervi, quasi a braccetto col rivale come facevo io col Bernardo, figlio del vicino orefice e tifoso milanista fino al midollo. Meglio, fino a saltare la cena quando il suo Milan perdeva una partita. Infatti in casa sua sapevano dei risultati calcistici della domenica dal comportamento del Bernardo che si infilava a letto senza sedersi a tavola oppure mangiava avidamente per due. Un suo modo inconscio, l’appetito, per elaborare le sconfitte o festeggiare le vittorie. Ben diverso il mio comportamento di timido interista: l’appetito non risentiva dei risultati, forse perché già vaccinato nel sopportare gli ondivaghi risultati della mia squadra.

Niente curve rissose. Nei derby interisti (per gli anziani non c’era Ambrosiana che tenesse) e milanisti si trovavano uno accanto all’altro a stretto contatto di gomito e di commenti. Poi potevano succedere scene comiche come quella vissuta in un’Ambrosiana-Milan giocata all’Arena (il Milan si era già trasferito a San Siro nel nuovo campo). Un derby che si prevedeva di fuoco anche perché il grande Giuseppe Meazza, verso il termine della carriera, aveva lasciato l’Ambrosiana e vestito la casacca rossonera. Un tradimento per molti! Niente di straordinario. Il Peppin aveva fatto vedere alcuni dei suoi ottimi numeri ed era stato beccato le poche volte che qualche difensore Ambro aveva interrotto le sue veroniche. Partita molto equilibrata, emozioni a non finire. Il fattaccio avvenne al momento di una delle controverse decisioni arbitrali. Tutti scontenti e rumorosi. Ad un tratto da un punto alto degli spalti iniziò un lancio di proiettili di ghiaccio diretti verso il campo. Sì, proprio di ghiaccio. Era nevicato giorni prima e la neve rimasta in cumuli sui gradoni col freddo aveva fatto il resto. Con “munizioni” così gelate a portata di mano non poteva che succedere quanto successo. Apparve come la sequenza di un film di Ridolini. Tutti contro tutti, come mossi da unico segnale. In un attimo tutta l’Arena fu teatro della fredda battaglia. Pezzi di neve ghiacciata, duri come pietre, volavano dall’alto verso il basso. Non raggiungevano il campo di gioco, separato dalla pista, ma sicuramente le teste e le spalle bipartisan dei malcapitati negli spalti inferiori. Che però non si arrendevano. Pur in condizioni di inferiorità rilanciavano verso l’alto, verso chi li aveva colpiti. Una battaglia, dolorosa per alcuni, senza distinzione di amici o nemici, nerazzurri o rossoneri, una battaglia terminata soltanto dopo l’esaurimento dei… proiettili.

Altri tempi, altro tifo, altro divertimento allo stadio. Soltanto immutate sono rimaste le strane decisioni degli arbitri…

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