Widgetized Section

Go to Admin » Appearance » Widgets » and move Gabfire Widget: Social into that MastheadOverlay zone

Il Viaggio

L’AFRICA COME TATUAGGIO

CARLO BOTTI - 28/02/2014

Alla Fondazione “Duhamel et Simone”

Uno smog che si può tagliare a fette accompagnato da un polverone che va a pervadere e a bloccare la respirazione e… Mundele! mundele! mundele; ehi bianco! bianco! bianco…

È il mio primo impatto con Brazzaville. Tre settimane durano poco ma il tempo è un concetto relativo. Quando ogni giornata si riempie di avvenimenti, di incontri, di risate, di sguardi, di racconti; quando viene speso con intensità, con intelligenza e tranquillità il tempo si dilata fino ad arrivare a perdere la sua durata naturale. E così è stato.

Appena ho messo piede nella fondazione “Duhamel et Simone” Maman Felicité mi ha preso per mano portandomi in mezzo ai bambini, straniti quanto me, a danzare in una specie di ballo di benvenuto. Ho provato una sensazione difficile da definire, mi sono sentito stranamente… a casa. La semplicità e la tranquillità dello sguardo di Maman Felicité mi rasserenava, era come se mi stesse dicendo “Sei nuovo, non conosci niente, non parli francese ma non preoccuparti ti aiutiamo noi”.
Ai miei occhi inizialmente, a parte qualche rara eccezione, i bambini che vedevo sembravano tutti uguali. Ed ero anche intimorito dal fatto che avremmo vissuto con loro ventiquattr’ore su ventiquattro, senza un momento per staccare la spina e starcene in tranquillità.

Lo svegliarsi con il vociare (a volte anche le urla), l’uscire dalla stanza e salutare subito i bambini, la colazione, i pranzi e le cene tutti insieme, il “cinema” la sera, il controllare che si lavassero i denti prima di andare a letto, insomma tutte quelle piccole cose quotidiane mi hanno permesso di vivere davvero questa esperienza in ogni suo aspetto.

Sono stato bene con loro. Non ci vogliono molti giri di parole, sono stato bene.
Ho riavuto la conferma che tornare all’originale, alla giusta scala dei valori delle cose e dei bisogni fa stare bene, meglio. E non ho avuto molti problemi ad abituarmi a quelle piccole scomodità per noi occidentali come la latrina condivisa con tutti, la mancanza di acqua corrente, il cibo, la mancanza di spazi personali.

La città non è un granché, non offre niente che non siano strade polverose, traffico e inquinamento selvaggio ma è come me l’aspettavo.

Il viaggio a Makoua è stata un’altra… bella esperienza: otto ore e passa, in quattro sul sedile posteriore di un’auto. E poi finalmente ho potuto riconoscere l’Africa dei libri, con la terra rossa, la vegetazione rigogliosa, gli uccelli canterini in ogni luogo e momento. E il villaggio che siamo andati a visitare dentro alla foresta. Dopo una ventina di minuti di strada sterrata in mezzo ad alberi giganteschi e a formicai che sembravano uscire dalle pagine del National Geographic.

Davanti ai nostri occhi è comparso un largo viale di palme, grande quanto una pista d’atterraggio per aerei, e ai lati le capanne costruite con “fango armato”. Una pace e una tranquillità di cui forse è facile scrivere, ma molto più difficile da comprendere.
Gli abitanti, come sempre, gentili, disponibili e vogliosi di mostrare ciò che per loro è normale e per noi tanto tanto distante.

Dopo i primi giorni – intensi – con i bambini a Brazzaville aspiravo al viaggio a Makoua come a un qualcosa di necessario per rilassarmi e staccare la mente. E poi invece, mentre eravamo a Makoua, m’è successa una cosa che non avrei mai immaginato: mi mancavano i bambini, volevo tornare. Con loro sono riuscito a instaurare un rapporto che non avrei immaginato prima di partire. Nei primi giorni il linguaggio universale degli sguardi e del gioco mi è venuto in aiuto. Poi, il mio rudimentale francese si è sciolto sempre di più. Le ragazzine si impietosivano a vedermi lavare i vestiti e si offrivano di lavarmeli per mostrarmi quanto ero inetto.

Insegnare ai ragazzi giochi di carte italiani, prenderli in braccio e fare finta di tirarli nella latrina, vederli lavarsi i denti tutti insieme, colorare, sbucciarmi il ginocchio matematicamente nello stesso punto giocando a calcio tutti insieme, imparare non comprendendole per niente le loro canzoncine, inventare jingle con i nomi dei bambini, dare soprannomi, assistere a riti esorcistici, e presenziare a messe partecipatissime con persone che realmente hanno la fede…

Una cosa particolare che mi fa sorridere è che, giocando a calcio, mi sono sbucciato un gomito e mi si è formata una crosta spessa. Questa crosta aveva la forma dell’Africa. E ancora adesso mi è rimasto il segno rosso, è come avere un tatuaggio, forse il più bello di quelli che ho.

Facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

You must be logged in to post a comment Login