Widgetized Section

Go to Admin » Appearance » Widgets » and move Gabfire Widget: Social into that MastheadOverlay zone

Storia

LA LINEA GRIGIA

FRANCO GIANNANTONI - 07/03/2014

Casa Famiglia di via Griffi nel cuore di Varese dopo l’8 settembre 1943 divenne un rifugio per gli ebrei contro cui i nazifascisti avevano scatenato una caccia feroce.

Monsignor Carlo Sonzini, che quella dimora aveva fortemente voluto per offrire un tetto alle ragazze che venivano in città in cerca di lavoro, la sua preziosa collaboratrice Lina Manni, diventata poi la prima madre superiora della congregazione delle Ancelle di San Giuseppe, la novizia Regina Zocchi, responsabile oggi della Casa di riposo di Viggiù e altre religiose, aprirono le porte del loro istituto rischiando la vita nel tentativo, in molti casi riuscito, di sottrarre gli ebrei alla cattura.

La comunità ebraica in Italia contava in quel drammatico 1943 circa quarantamila persone. Molti ebrei se n’erano andati all’estero all’emanazione del 1938 delle leggi razziali avvertendo il pericolo imminente. Altri restarono confidando nella loro “italianità” e nella loro fedeltà al regime mostrata sui campi di battaglia e nelle professioni. Costituivano comunque solo l’uno per mille dei quarantaquattro milioni di abitanti del Paese. Un numero irrilevante.

Ventimila ebrei all’armistizio si trovavano sotto la Linea Gotica al sicuro. Per gli altri, residenti nel territorio della Repubblica Sociale Italiana, non restò che giocare la disperata carta di puntare verso la Svizzera in cerca della salvezza.

Degli ottomila ebrei che si diressero verso la Confederazione ben l’ottanta per cento, secondo gli studi di Liliana Picciotto, responsabile del Centro di documentazione ebraica di Milano, si diresse a Varese. La linea immaginaria del confine era delimitata da montagne non molto alte, da una ricca boscaglia e dal torrente Tresa quasi sempre in secca. Giunti a Varese gli ebrei dovevano procurarsi i documenti che attestassero la loro “arianità” nel caso fossero stati sorpresi nel trasferimento da posti di blocco nemici. Per dotarsi di carte d’identità era necessario sostare qualche giorno a Varese, trovare un tetto e un primo soccorso.

Un drammatico interrogativo che Casa San Giuseppe assolse con coraggio e solidarietà. Il numero dei “beneficati” fu notevole. Un brogliacco clandestino delle Ancelle di San Giuseppe reso pubblico di recente segnala alcuni casi. Non tutti coloro che si rivolsero alla carità di Sonzini e di Lina Manni ce la fecero. Alcuni furono arrestati al termine di improvvise irruzioni da parte di militi della Guardia doganale germanica preposta al controllo dei confini e alla cattura della comunità semita che i criminali fascisti della RSI etichettavano in quel tempo come “maledetti figli di Giuda”.

Ebbene, di quella pagina esaltante in cui rifulsero valori fondamentali dell’uomo prima che del sacerdote e delle novizie, nel Convegno tenuto all’Istituto “De Filippi” di Varese il 14 e il 21 febbraio scorsi per celebrare il centenario sacerdotale del presule, non vi è stato alcun cenno specifico, quasi il tema non avesse alcuna rilevanza.

Così come non si è parlato neppure di sfuggita, nel tentativo di offrire qualche chiave di lettura da parte dei vari relatori pur chiamati a tratteggiare la figura del grande sacerdote avviato alla canonizzazione (ricordo a me stesso il mio ruolo di testimone fra circa sessanta) della “linea” fortemente antisemita, antimassonica, antimodernista e infine antialleata tenuta dal 1925 al 1943 da due fondamentali collaboratori de il “Luce!”, don Walter Oliva e il laico Filippo Maria Tinti che ogni settimana si erano impegnati in attacchi particolarmente violenti, al di là della stessa posizione della Chiesa ufficiale, contro gli ebrei responsabili a loro dire di ogni nefandezza del mondo. Una requisitoria, quella dei due personaggi, che era proseguita con toni incalzanti all’emissione nel 1938 delle sciagurate leggi razziali.

Secondo il professor Giorgio Vecchio, docente di storia contemporanea all’Università di Parma, autore del ponderoso saggio “Il Luce!, la Chiesa e la società italiana del Novecento” in “Luce sul Novecento” (Lativa, 2004) edito per il Novantesimo del periodico, qualche tempo dopo clamorosamente chiuso, don Oliva e Tinti “contribuirono a dare al giornale una facciata che non è esagerato definire clerico-fascista e duramente antisemita”. Un giudizio che il professor Vecchio aveva sorretto con pagine e pagine di citazioni e di valutazioni.

Come monsignor Sonzini che aveva scelto personalmente la coppia collaboratrice avesse tollerato per decenni questa campagna di intolleranza e di odio resta da chiarire. La materia è delicata e l’occasione del “De Filippi” avrebbe potuto essere colta in luogo di relazioni non sempre all’altezza dell’attesa.

Caduto il fascismo il 25 luglio 1943, il foglio di Sonzini abbracciò con grandissimo entusiasmo la svolta sabauda e badogliana per poi, dopo l’8 settembre, sfumando la pregressa vicinanza al regime, attraversare momenti veramente duri. Seguirono infatti la censura dei gerarchi della Repubblica Sociale Italiana per avere snobbato alcune circolari prefettizie, la sospensione delle pubblicazioni per un mese, il deferimento di Sonzini al Tribunale provinciale straordinario di Varese “per i traditori dell’Idea”, le dimissioni dello stesso “trattate” dal cardinale Schüster e il ministro della Cultura popolare Mezzasoma, la sostituzione al vertice del giornale con il giovane don Ernesto Pisoni anche lui nell’aprile 1944 messo sotto torchio per l’articolo “Il sepolcro vuoto” dove aveva dato degli “untorelli” ai gerarchetti locali.

Forse mi sono sbagliato nell’attendere un dibattito a pieno campo. La figura del sacerdote malnatese è rimasta sullo sfondo con cenni a volo d’uccello non sempre comprensibili. Mi chiedo il perché. La “doppiezza” sul tema ebraico era un nodo comunque da non eludere.

Facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

You must be logged in to post a comment Login