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Storia

LA RESISTENZA DISARMATA

FRANCO GIANNANTONI - 14/03/2014

Gli operai che nel marzo 1944, 70 anni fa, avevano raggiunto un elevato grado di maturazione e di compattezza politica attorno al Partito Comunista italiano, il primo nella lotta al nazifascismo, e ai Comitati di Agitazione, reagiscono alla provocatoria iniziativa della “socializzazione” delle imprese (la partecipazione, sulla carta, dei dipendenti agli utili, proposta invisa non solo ai padroni ma allo stesso Comando tedesco) con lo sciopero generale di segno prettamente “politico” che assume sin dall’avvio un peso e una dimensione straordinari.

Si trattò di una grande, silenziosa, coraggiosa battaglia che colse, almeno nelle fasi iniziali, il regime di Mussolini e gli occupanti impreparati. Il quadro economico-sociale dell’Italia sotto il tallone nazista era giunto ai limiti di rottura: alcune aziende funzionavano a singhiozzo, altre erano paralizzate per mancanza di materie prime, altre ancora avevano subito il sistematico saccheggio dell’invasore. I salari, malgrado le promesse, erano inadeguati. Lo specchietto per le allodole della “socializzazione”, una gigantesca “bufala” non poteva certo tranquillizzare chi faceva fatica a tirare avanti mentre la guerra mandava segnali disastrosi.

In questo clima il 1° marzo esplose la protesta, massiccia, corale, la prima potente risposta alle dittature nell’Europa del Reich e di Salò. Un evento straordinario, la pagina che passerà allo Storia come la “Resistenza disarmata”.

La scintilla parte da Milano e da Sesto San Giovanni, la “Stalingrado d’Italia” ricca di aziende storiche come la Breda, la Innocenti, la Magneti Marelli. Vengono distribuiti dalle 10 del mattino volantini dell’Unità e dell’Avanti clandestini che illustrano i motivi della protesta. Caro-vita, guerra, disoccupazione, deportazione. Gli operai entrano in fabbrica ma incrociano le braccia dietro i banconi. La produzione si ferma. La popolazione ha echi lontani, sa e non sa, teme rappresaglie e volta la faccia dall’altra parte come se la questione non la riguardasse. È la vituperata “zona grigia”.

In provincia di Varese lo sciopero è compatto. In un rapporto del 2 marzo 1944 la Guardia Nazionale Repubblicana (Gnr) della città, l’orecchio attento del regime, segnala al Quartier Generale del duce: “Alle ore 10 del 1° corrente nel Varesotto al segnale di prova della sirena d’allarme gli stabilimenti Cemsa di 1700 operai, Isotta Fraschini di 2300 operai, Sama di 45 operai, hanno iniziato lo sciopero bianco. Sul posto, presi accordi con il Capo della Provincia, il prefetto Mario Bassi, si è recato un reparto della Gendarmeria tedesca”.

Alle 15,30 i lavoratori della Cesma erano tornati al lavoro ma un’ora dopo avevano incrociato le braccia i lavoratori della Parma di Saronno, delle Fonderie Petri, della Primi.

I tedeschi, la Gnr e la polizia, avevano circondato in forze i punti della protesta. A Busto Arsizio lo sciopero era stato molto più breve. Alle 14 quando erano apparsi i tedeschi, gli operai di due calzaturifici, Borri e Bottinelli, avevano ripreso la produzione mentre erano entrati in sciopero sino alle 15,15 gli operai della Manifattura Tosi. “I motivi degli scioperi – sostiene la Gnr – sono da ricercarsi nella pretesa di nuove concessioni economiche e annonarie ma lo sfondo è evidentemente politico”.

La ondata di protesta non si era fermata. Il bollettino Gnr del 3 marzo segnala che a Saronno scioperano 2800 operai della Isotta Fraschini, 1000 della De Angeli Frua, 1200 della Manifattura Lombarda.. Malgrado le minacce di un intervento militare a Saronno gli operai avevano continuato la protesta mentre a Busto Arsizio esplodono ordigni contro il Cotonificio Bustese, contro le fonderie Tovaglieri e la Tintoria Cerana.

L’ondata è irrefrenabile. La Gnr continua a segnalare alla segreteria di Mussolini di proteste massicce. I tedeschi, nel tentativo di frenare lo sciopero, revocano i provvedimenti che hanno esonerato i lavoratori più giovani dalla chiamata nelle forze armate. Ma i giovani a questo punto fuggono, vanno in montagna, si uniscono alle bande partigiane della Valsesia e della Val d’Ossola. Moscatelli è già un mito e funge da calamita per gli entusiasmi dei futuri combattenti.

La Gnr avanza il sospetto, in parte vero, che alcuni industriali abbiano aiutato gli operai. Il caso citato è quello del conte Sterzi che a Valle Olona nelle sue cartiere si pone al fianco di chi combatte il regime. Sterzi verrà arrestato. Gli si trova in tasca la ricevuta di 10 mila lire date ai “ribelli”.

Di Varese si parla nel bollettino del 6 marzo. La “Avio Macchi” che produce i caccia Veltro e Saetta per il Reich si è unita alle migliaia di operai in lotta. Il Questore Solinas ordina che ogni operaio sia controllato all’entrata e all’uscita dalla fabbrica “per impedire la introduzione di ordigni esplosivi o idonei al sabotaggio e di materiale di propaganda antinazionale”.

La paura dei bombardamenti alleati è un altro elemento che concorre a rallentare la produzione. Contro gli 800 operai del “Calzaturificio di Varese” che non vorrebbero entrare in fabbrica il Capo della Provincia manda una pattuglia armata di militi tedeschi che in breve ristabilisce l’ordine.

Salò dopo qualche giorno tenta un bilancio di queste giornate bollenti. Secondo un comunicato del Ministero dell’Interno a Varese e in provincia hanno scioperato 7.707 persone. È un dato assai ridotto rispetto al realtà ma è necessario per i nazifascisti tentare di attenuare la dimensione del fenomeno con un’informazione contenuta. Complessivamente in Lombardia hanno incrociato le braccia 207.469 operai. La fotografia anche in questo caso è falsa. Gli stessi tedeschi raddoppiano quei numeri.

Ma è il germe “politico” quello che preoccupa. Chi muove le fila? Che significato più profondo ha questa protesta? Il 24 marzo sempre la Gnr tenta di svilire le proporzioni del fenomeno sostenendo che gli operai paiono poco interessati a non lavorare. La responsabilità è di pochi sobillatori. Ma la stessa Gnr non può esimersi dal registrare con disinvoltura “che una parte della classe operaia, che potrebbe essere la maggioranza, vive in uno stato di abulia, disinteressandosi di tutto, pronta a seguire il vincitore chiunque esso sia”.

La fame e i bassi salari nei mesi successivi renderanno il fenomeno ancora più acuto e incontrollabile.

Il 1° maggio rappresenterà la svolta. Nelle buche delle lettere di molti varesini, un volantino del Comitato d’Agitazione ricorda che “sarà l’ultima festa dei lavoratori di guerra e di dittatura mussoliniana”.

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