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Il Viaggio

DESTINAZIONE BURUNDI

CARLO BOTTI - 23/05/2014

L’Ospedale di Mutoyi

Sono sempre gli stessi i pensieri che si addensano nella mente prima di partire: “Ma non potevo rimanere nella comodità della mia casa? Nella facilità degli affetti familiari, degli amici, nella protezione delle cose conosciute? Devo sempre scegliere di andare nei posti più lontani? E adesso proprio in Burundi?”. Ma alla fine vince il desiderio di andare, di conoscere. Più semplicemente, di partire e basta.

Fino a poco tempo fa – almeno, fino al momento del mio nuovo viaggio – il Burundi era sinonimo, per me e per i miei amici, di una località quasi di fantasia e irraggiungibile. In realtà il Burundi è uno degli stati più piccoli dell’Africa. È a forma di cuore e infatti si trova nel cuore del Continente nero. È qui che nasce il fiume per eccellenza, il fiume della civiltà: il Nilo.

Il Burundi è anche tra i cinque paesi più poveri al mondo (ma non si sa perché le nuove linee guida della Cooperazione italiana allo sviluppo lo abbiano escluso dai paesi meritevoli di attenzione. Forse qui non ci sono interessi da tutelare…).
Il territorio, le popolazioni sono stati dilaniati dalle guerre civili, dalla lotta tra le due etnie isolate dal colonialismo prima tedesco e poi belga: Hutu e Tutsi. Le stesse etnie che abitano nel più famoso Ruanda, le cui tragiche vicende sono state raccontate anche in un film.

Il Burundi è un Paese di colline verdi e tondeggianti che ricordano molto le nostre dell’Appennino tosco-emiliano. Ma è anche la terra dei bananeti e dei ragni… discreti.

Qui il Vispe, una ONG con sede a Milano, il cui nome sta per Volontari italiani solidarietà paesi emergenti, ha dedicato e indirizzato i suoi aiuti. Da circa quarant’anni, rimanendo ostinatamente sul posto anche durante i periodi bui della guerra, ha creato una missione nella regione di Mutoyi, un successo della cooperazione volontaria italiana, un modello di sviluppo per il Burundi e per l’Africa.

L’ONG Vispe vi ha costruito un importante ospedale cominciando con l’allestimento di un dispensario. In seguito con il sostegno e i contributi di distinti finanziatori – anche semplici cittadini – ha dato vita a diverse cooperative di produzione (artigianato, trasformazione di prodotti agricoli, trasporto, allevamento). L’obiettivo è aiutare le persone del luogo e insegnare loro un mestiere, sostenerle perché siano autosufficienti e autonome. Le cooperative e l’ospedale oggi danno lavoro a quasi duemila persone.

L’opera di Mutoyi è nota soprattutto tra i cooperatori: un intervento che ha dell’incredibile, un vero miracolo che s’è realizzato nel concreto pur tra inenarrabili difficoltà, superate grazie alla volontà di uomini e donne straordinari, sia tra gli indigeni – i cosiddetti barundi – sia tra coloro che o lì vivono da tempo o che fanno la spola tra l’Italia e il cuore dell’Africa.

Di queste persone voglio parlare, di personaggi semplici e straordinari al tempo stesso. Voglio dire, per esempio, di Emilio, di Grazia e di Zerbabel. Grazia e Emilio sono una coppia di Legnano, lei ex infermiera e lui ex capo magazziniere. Due persone solari, simpatiche e disponibilissime. Stavolta sono a Mutoyi per cercare di dare un ordine al magazzino dell’officina. Un magazzino formato da decine e decine di container arrivati dall’Italia durante tutti questi anni. Un’impresa titanica se si tiene presente che si sono confusamente accumulate cose tra le più disparate. Di buona lena si sono messi al lavoro e in pochi mesi sono riusciti anche a insegnare ad alcuni giovani barundi a organizzare e a gestire il materiale, usando un software e il computer.

Zerbabel invece è un ragazzo barundi. Da piccolo era affetto da una malattia, aveva una lingua ipertrofica che gli penzolava dalla bocca. Non riusciva a parlare e a mangiare se non ficcandosi il cibo direttamente in gola, era un bambino emarginato. Emilio e Grazia riuscirono a portarlo in Italia. Dando vita a una gara di solidarietà lo fecero operare al San Raffaele, gli hanno insegnato a parlare con l’aiuto di un logopedista, l’hanno ospitato per diversi mesi – insieme con il suo papà – nella loro casa di Legnano. Zerbabel è diventato per loro un altro figlio e il suo papà un fratello.

Zerbabel ora vive di nuovo in Burundi con la sua famiglia. Ancora con l’aiuto di Emilio e di Grazia i suoi famigliari hanno potuto costruire una casa nella capitale, a Bujumbura. Va a scuola, parla italiano e francese e kirundi. Nei giorni della mia permanenza abbiamo festeggiato il suo quindicesimo compleanno. Durante la settimana in cui Zerbabel si è fermato con noi ho scorto negli occhi di Emilio e Grazia una luce di gioia come raramente finora m’è capitato di vedere.

Voglio parlare di madre Fiorenza che fa parte delle congregazione delle Piccole apostole di Gesù.La Casamadre è ad Appiano Gentile ma suor Fiorenza vive in Burundi da quando aveva 26 anni. Una donna piena di energia, di volontà. Quand’ero vicino a lei cercavo sempre di farmi trovare in qualche modo indaffarato. Se no ero sicuro che mi avrebbe detto “Ma Carlo non fai niente? Non è che mi dai una mano?”. Non ne sarei più uscito…

Non ho mai visto madre Fiorenza arrabbiata o semplicemente preoccupata. E sì che la sua storia è piena di durissime prove e, purtroppo, di pericolose imprese. Madre Fiorenza a Mutoyi è la responsabile di tutte le sue sorelle e di conseguenza di tutta la comunità. Offre anche assistenza ai carcerati nelle prigioni, se così si possono chiamare: lugubri cameroni in cui vengono mischiati assassini, stupratori, giovani ladruncoli. Non esistono condizioni igieniche che si possano definire umane.

Una fermezza e una forza incredibile nella sua semplicità. Madre Fiorenza era serena anche quando raccontava episodi della guerra civile, di quando dovette scappare per i campi nel buio della notte con un gruppo di bambini Hutu per proteggerli dall’esercito dei Tutsi, o di quando venne minacciata da giovanissimi miliziani armati di Kalashnikov che la volevano costringere a confessare dove si trovavano le persone che proteggeva. E che erano sotto il suo letto. Raccontava tutto ciò come se dicesse: “Ah, infine sono andata al mercato e non ho trovato i pomodori!”.

Voglio parlare di Ettore, un giovane medico napoletano che sta facendo esperienza sul campo dopo un master in chirurgia tropicale all’università di Verona. Ha 32 anni, è di poco più grande di me, un personaggio quasi anonimo, discreto che però ha già vissuto dieci vite in una.

Dopo essersi diplomato alla scuola navale militare Morosini di Venezia e aver frequentato il primo anno di medicina, si è messo lo zaino in spalla, dicendo a sé stesso che questo mondo andava conosciuto. Ha vissuto nelle favelas a Rio de Janeiro insegnando italiano, in Turchia dove ha rischiato di… sposarsi ed è dovuto fuggire a gambe levate, da lì in Spagna a fare il pizzaiolo, poi in India dove ha conosciuto quella che sarebbe diventata la madre della sua bellissima figlia, e in tanti altri posti ancora. A un certo punto è tornato a casa e si è rimesso sotto con lo studio, laureandosi alla grande nel più breve tempo possibile. È a Mutoyi per completare il master e perché, secondo lui, bisogna fare il medico dove ce n’è bisogno. Rinchiudersi in uno studio di Napoli aperto sul Golfo – anche i suoi genitori sono medici – per Ettore non avrebbe senso. Ma non è finita la sua storia: adesso vuole diventare architetto. “È da un po’ che ci penso, credo che presto avrò proprio voglia di costruire le case”. E aggiungeva sornione: “Mi mancano tre posti in cui voglio andare: nella foresta amazzonica, in Mongolia con gli ultimi veri nomadi e in Nepal. Se sopravviverò potrò dire di avercela fatta”. Facile no?

Magari da noi si direbbe che è uno che non sa quello che vuole. Invece credo di non avere mai conosciuto nessuno con una così grande consapevolezza di sé. Ripeteva sempre a mo’ di insegnamento: “Quando ti presenti in un luogo e ti proponi devi essere in grado di sapere fare un ventaglio di cose, solo così sarai davvero utile e non di intralcio. Se va male si può sempre andare a fare il clochard alle Hawaii”. Perché Ettore ha fatto anche quello…

E voglio dire ancora di Ferruccio e di Raffaele. I miei due compagni di viaggio, entrambi più grandi me. Ferruccio ha sessant’anni, Raffaele quaranta. Tre età lontane, le nostre, tre generazioni diverse in pratica, ma mi sembrava di stare con persone che conoscevo da sempre. Risate, intese e discorsi seri che a volte si fanno solo dopo un rapporto e un’amicizia di anni e anni di vita in comune.

Ferruccio, di Milano, è stato dirigente di una multinazionale americana, una volta andato in pensione, non ha pensato di mettersi a riposo. Anch’egli ha preso lo zaino e si è rimesso in gioco: sono ormai dieci anni che gira il mondo partecipando a progetti di cooperazione, facendo qualsiasi cosa: ha costruito acquedotti, ha lavorato in centri educativi, ha arato campi. Sempre con ironia e leggerezza, puntando sui rapporti umani e sull’amicizia.

Raffaele, pure milanese, invece, è un contabile con una ventina d’anni di lavoro. Se ripenso a lui mi viene in mente l’entusiasmo fatto persona. Sempre carico, felice, sorridente. Anche Raffaele è già ricco di tante esperienze ma ha sempre il desiderio di nuove. È una di quelle persone che tutti vorrebbero avere al proprio fianco, perché quando si è un po’ giù, soltanto uno come lui che ha dentro di sé qualcosa di speciale ti può aiutare.

Vi vorrei parlare anche di padre Seba che sta aiutando i bambini rimasti senza famiglia dopo la guerra civile: vive con loro e li manda a scuola; di Esperance, poliomelitica, abbandonata a sua volta e che ora dedica la sua vita ai più piccoli in un orfanotrofio; delle altre sorelle, le Piccole Apostole di Gesù, che vivono in una casa sperduta tra i bananeti e che lavorano in silenzio con la comunità locale. Vi vorrei parlare di tante altre persone che ho conosciuto.

Il Burundi? Il Burundi per me sono loro.

 

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