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Politica

NAPOLITANO, ADIEU

VINCENZO CIARAFFA - 14/11/2014

napolitanoA parte gli antefatti e le previsioni sulle sue ventilate dimissioni, quello di Giorgio Napolitano sta diventando un caso umano prima ancora che politico e istituzionale, perché la nemica numero uno sua e di questa raffazzonata democrazia preme ormai sul portone del Quirinale. Il suo nome? Vecchiezza. Pur chi – come Grillo – volesse considerare le riferite dimissioni presidenziali un ricatto al Parlamento o un tentativo d’interdizione di quelle elezioni anticipate che vorrebbe Renzi, non potrebbe non tener presente un dato oggettivo e cioè che a giugno prossimo, il Presidente della Repubblica compirà novant’anni. Trattasi di un’età che di certo non è compatibile con i gravosi impegni istituzionali del presidente di una repubblica come quella italiana che è alla ricerca di una sofferta identità politica (e costituzionale) da almeno trent’anni.

Tuttavia, l’eventuale addio anticipato del Presidente potrebbe fondarsi, secondo noi, anche su aspetti non sufficientemente esplorati e che toccano l’uomo più che il politico. Tali aspetti sono parecchi e, perciò, proveremo a elencarvi i principali, anche se, per intenderci, bisogna tener presente che Napolitano è anche un napoletano di vecchio stampo, come dire un genotipo con caratteristiche interiori piuttosto insolite nell’attuale firmamento politico, pullulante di giovani lievi, spregiudicati e per niente avvezzi all’autocritica.

A voler essere buoni. Il napoletano – tipo invece è un individuo ironico, estroverso, allegro, propenso agli “accomodamenti” pur se, a causa delle sue origini culturali e spirituali greche e spagnole, conserva in fondo al cuore il senso tragico dell’esistenza umana. E questo tipo di stimmate caratteriali incide molto sulle decisioni delle persone anziane, specialmente quando non si realizzano quei presupposti cui accennava Marco Tullio Cicerone nel suo “Dialogo sulla vecchiezza” dedicato all’amico Attico: «Perdurano nei vecchi le doti intellettuali, purché perduri il fervore e l’operosità». Come dire che la natura ha le sue inaggirabili leggi e che da esse non può sfuggire neppure un Presidente, specialmente quando gli vengono meno gli stimoli ideali, morali e intellettuali.

Ecco, noi sospettiamo che, assieme all’avanzare dell’età in Napolitano siano cessati di perdurare il «fervore e l’operosità» anche perché giunto a una fase della vita in cui, di solito, gli esseri umani iniziano a interrogarsi sul presente, sul passato e a fare bilanci che per lui, un naufrago del marxismo, di certo non possono ritenersi positivi. Comunista fin dai tempi del Comintern, dopo la rottamazione della «Gioiosa macchina da guerra» di Achille Occhetto, si è trovato a dover militare in un partito che, pur definendosi di sinistra, ha cambiato tre volte nome in pochi anni perché vergognoso del proprio passato marxista.

Lui, invece, coerente con se stesso fino all’ultimo, voleva che il P.C.I. trasmutasse in Partito del Lavoro per non tradire del tutto le sue origini comuniste. Ma molti di quelli che oggi hanno fatto di lui l’icona della stabilità politica, all’epoca lo bollarono d’immobilismo storico tant’è che il PD, nato dalla costola del P.C.I., del marxismo non ha conservato niente salvo l’opposizione interna dei duri e puri.

Durante il suo primo settennato Napolitano fu costretto a convivere con una persona che disistimava profondamente, Berlusconi, ma non gli andò bene neppure con Monti. Questi, infatti, non si rivelò il taumaturgo che lui sperava fosse e che in un certo senso lo tradì quando, disattendendo i suoi desideri, decise di fondare un partito perdendo l’aureola di super partes e dimostrando così che la sua nomina a senatore a vita non era stata intempestiva: era stata sbagliata.

Anche il suo secondo settennato si sta snodando all’insegna del fallimento, come quelle larghe intese da lui ripetutamente auspicate allora che – caso unico nella storia della nostra repubblica – il 20 aprile del 2013 ottenne da una classe politica implorante il secondo mandato presidenziale, forse non sufficientemente conscio di dover tenere in riga un parlamento che era stato incapace perfino di portare avanti una semplice elezione interna. Comunque, il secondo mandato fu sì accettato, ma non senza altre puntualizzazioni: «… mi muove in questo momento il sentimento di non potermi sottrarre a un’assunzione di responsabilità verso la nazione, confidando che vi corrisponda un’analoga, collettiva assunzione di responsabilità». Non molto convinto neppure lui delle proprie parole, il giorno del giuramento davanti al Parlamento fu ancora più esplicito: «Se mi troverò di nuovo innanzi a sordità come quella contro di cui ho cozzato nel passato, non esiterò a trarne le conseguenze dinnanzi al Paese».

Il momento di trarne le conseguenze è arrivato? Nessuno può saperlo con certezza, fatto sta che – è sotto gli occhi di tutti – la macchina dello Stato è in panne per eccesso di manipolazioni, i dati economici e occupazionali sono a dir poco tragici e un pericoloso ribellismo ha preso a serpeggiare anche nell’animo di quei cittadini solitamente benpensanti. Si è visto nelle recenti manifestazioni di piazza a Roma, dove la Polizia ha dovuto mettere mano al manganello per riportare l’ordine; si è visto a Carrara, dove la folla ha assaltato il sindaco e il Comune; si è visto a Bologna, dove i manifestanti hanno assaltato l’auto del segretario della Lega.

Peraltro, accadimenti del genere il Presidente li aveva paventati qualche settimana prima parlando a delle scolaresche del Lazio. Se a tutto ciò si aggiunge la delusione per l’impercorribilità dei governi di larghe intese da lui caldeggiati, le mancate riforme sulle quali si erano impegnati sia il governo Monti, sia il governo Letta, sia quello attuale, si può arrivare a capire il dramma che probabilmente si agita nel cuore del Presidente.

Egli in questi giorni è sicuramente combattuto tra stanchezza fisica e morale, tra rabbia e delusione, tra senso del dovere e senso del momento storico. Certo è che non si può chiedere a un uomo che, quasi novantenne, ha accettato di prendere sulle proprie spalle il pesante fardello di uno Stato gravemente malato, di esserne anche il becchino o, in alternativa, terminare la propria carriera politica nelle vesti di curatore fallimentare della Repubblica Italiana.

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