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Società

PROBLEMA LAVORO

FELICE MAGNANI - 12/12/2014

jobsStiamo attraversando un momento difficile. Il lavoro è nell’occhio del ciclone. Diversi sono i fattori che ne hanno minato e che continuano a minarne la forza. Qualcuno parla di eccesso di garantismo costituzionale e istituzionale, altri affermano che ha goduto di un protezionismo sindacale che non gli ha permesso di crescere, di diventare adulto per ragioni di comodità o anche di natura ideologica.

Una difesa a oltranza nel passato avrebbe generato una sorta di immobilismo che avrebbe impedito ai lavoratori di esprimere al meglio le loro potenzialità in un sistema di libertà consapevole. In alcuni casi è diventato un vessillo su cui scommettere la propria forza elettorale, la propria capacità di interpretare al meglio le aspirazioni e le esigenze popolari, senza tenere conto che il popolo, per sua natura, ha un’attitudine sociale variegata e alternativa. Ci si è orientati sul concetto di lavoro/diritto, come se bastasse l’appartenenza costituzionale a sancirne l’inattaccabilità.

È su questo fronte che all’interno del mondo del lavoro si è creata una sorta di investitura basata sul fatto che il lavoratore avesse sempre ragione. Il problema si è dunque capovolto: se prima il lavoro soffriva la coercizione di una classe imprenditoriale cieca e autoritaria, improvvisamente si è trovato a diventare vittima di un’altra filosofia altrettanto coercitiva, quella ideologica, vincolata a una tradizione politica, a dogmi e quindi inattaccabile. Si è passati dalla frusta del padrone a quella non meno pesante della politica.

Gli anni difficili del lavoro in Italia sono stati contrassegnati da forme ossessive di protezionismo, un protezionismo che in molti casi ha pianificato, appiattito, omologato e massificato volontà, intelligenze e che non ha permesso di sviluppare forme d’interazione basate sulla reciproca fiducia. Quella che sarebbe dovuta essere una sana ed equilibrata competitività basata sul merito e sulla buona volontà del lavoratore, quella che avrebbe dovuto far emergere la cultura umana e professionale del lavoratore si è trasformata in una omologante e inopportuna lotta di classe.

La demagogia ha imposto il lavoro come diritto, facendo passare in secondo piano il lavoro come dovere, come creatività, come realizzazione di attitudini, come progetto nel quale le parti collaborano alla costruzione di un futuro migliore per tutti. L’idea che il lavoro fosse un diritto inalienabile e che il lavoratore avesse sempre ragione, ha accampato per molto tempo sui pennoni della vita politica e imprenditoriale italiana, ingessando le parti nobili dei lavoratori: il merito, la volontà, la capacità, l’impegno, il rispetto, quelle risorse che fanno scattare la voglia di migliorarsi, di sviluppare al massimo livello le proprie capacità.

È mancata soprattutto una cultura del lavoro, uno spazio di formazione umana e professionale seria alla quale attingere per motivare al meglio i lavoratori e gli imprenditori. Non si è lavorato abbastanza sulla composizione di quei dissidi che hanno caratterizzato la nascita della rivoluzione industriale, è stato fatto molto poco per comporre un piano collaborativo tra classe imprenditoriale e classe operaia, stemperando divisioni e filosofie.

Lo Statuto dei lavoratori è stato un punto d’arrivo importante sulla via della crescita democratica del mondo del lavoro, ma ha risentito di un protezionismo dettato da condizioni di reciproca sfiducia, come se le parti in causa avessero delegato a un codice scritto le loro relazioni, i loro rapporti, ma anche tutta una lunga serie di incomprensioni e pregiudizi mai risolti.

Il lavoro non è una camicia di forza o una proprietà privata, ma strumento che deve garantire al massimo livello la crescita umana, culturale, economica e sociale delle persone e della comunità, la molla dalla quale partire per migliorare la qualità della vita, per garantire prosperità, ordine e sicurezza. Perché ciò avvenga occorre abbandonare tutte quelle forme di pregiudizio scritte e mentali che hanno caratterizzato e che caratterizzano la storia del lavoro e dei lavoratori.

In Italia esiste di fatto un’arbitrarietà radicata e profonda, ad esempio, da parte di imprese che in molti casi agiscono al di fuori delle regole, adottando sistemi di tipo mercenario, assolutamente incompatibili con l’etica del lavoro e del rispetto delle persone. Si è lavorato molto poco sulla sfera umana e morale, lasciando ai sotterfugi, alle trasgressioni, alle prevaricazioni e a violenze di ogni genere da una parte e dall’altra.

La storia dei tempi nostri dimostra quanto le parti in causa, mondo imprenditoriale e mondo del lavoro, siano ancora lontani dall’aver raggiunto una maturità esistenziale fondata sulla fiducia, sul rispetto reciproco, sulla convinzione che il futuro stia nella collaborazione, nella capacità di affrontare le difficoltà insieme.

Molti degl’inconvenienti che hanno minato la solidità del mondo del lavoro sono dipesi da una storica mancanza di collaborazione e di relazione tra le parti e da una sostanziale vacuità dei governi, che non sono stati capaci di incrementare il giusto entusiasmo e quei valori societari che avrebbero fatto la differenza. Per non parlare poi di un accesso al credito incondizionato e scriteriato. Il lavoro è ancora troppo spesso sfruttamento, prevaricazione, trasgressione, soggetto a troppi condizionamenti burocratici, ad un farraginoso involucro di tasse che impedisce alle generazioni che vogliono intraprendere di avviare nuove attività, con la giusta disponibilità d’animo; viene vissuto come una condanna perché mancano motivazioni e stimoli, manca soprattutto una preparazione seria al mondo del lavoro, per questo diventa discriminante, conflittuale, frustrante, aliena e non aiuta la crescita delle persone. Ci sono lavoratori che svolgono più lavori e altri che fanno fatica a trovarne uno. Manca soprattutto un’ educazione al lavoro.

Dunque non basta adottare éscamotage per ampliare la produttività, bisogna investire sul lavoro come realizzazione di personalità, come strumento di crescita non solo economica ma soprattutto umana, culturale e morale. Credo sia fondamentale motivare chi lavora, trasmettere entusiasmo, sviluppare forme di merito, tornare a premiare chi svolge con abnegazione il proprio dovere. Troppo spesso negli ambienti di lavoro non si è dato spazio alla volontà, alla professionalità, all’impegno, al rispetto delle regole e si è lasciato che lavoratori particolarmente dotati venissero trattati alla stessa stregua di altri. Il lavoro deve essere fatto amare anche quando non piace, anche quando non corrisponde a un corso di studi, a una simpatia, a una vocazione, perché è onorandolo con l’impegno e la serietà professionale che si costruisce il futuro della nostra società e del nostro paese. Col passare del tempo tutti i nodi son venuti al pettine aggravati da una globalizzazione affrettata, da una europeizzazione indiscriminata, da una crisi d’identità del settore bancario, da una trasformazione monetaria affrettata, da un eccesso di spesa e da varie forme di immoralità che hanno contraddistinto il sistema delle relazioni politiche e sociali.

La crisi della politica nazionale ha pesato enormemente sullo sviluppo delle attività, sulla fiducia nei rapporti sociali, sulla possibilità di proporre e di convertire. La corruzione ha frenato le idealità e in molti casi imprenditori e lavoratori sono stati spiazzati da un sistema finanziario privo di certezze. Il sistema delle burocrazie ha ostacolato i tempi e i modi della ripresa, avallando varie forme di stagnazione e di disagio. Chi aveva investito con troppa leggerezza si è trovato spiazzato e disorientato a causa della crisi di tutto il sistema economico sul quale aveva costruito la propria progettualità. Invece di snellire il sistema, la politica ha lavorato molto su se stessa, sul proprio ego, creando situazioni di grave malessere sociale, badando molto di più al proprio personale consenso elettorale. I giovani si sono trovati spiazzati da politiche che hanno privilegiato l’immobilismo e la stagnazione e che non hanno mai preso sul serio il rinnovamento della classe sociale.

Oggi ci si trova nella condizione di dover giocare sui numeri, cercando di coprire il debito. Reimpostare una politica del lavoro su base nazionale ed europea non sarà facile, perché si tratta di ricostruire il sistema dalle fondamenta, ricreando quella fiducia e quell’entusiasmo che sono fondamentali per una ripresa seria del nostro paese. Il lavoro vuole affermarsi così come la nostra Costituzione lo pretende e cioè come fondamento della vita del paese e i lavoratori vogliono avere un ruolo da protagonisti della nuova svolta industriale, ma perché ciò avvenga occorre che le volontà siano convergenti e soprattutto collaborative sugli obiettivi da perseguire.

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