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Editoriale

L’ULTIMA IDEOLOGIA

CAMILLO MASSIMO FIORI - 14/01/2012

“La grande finanza internazionale fine a sé stessa non serve il mondo ma se ne serve, il profitto diventa scopo in sé e quindi immorale perché condiziona e sottomette anche la politica e l’economia; la politica deve corrispondere al suo mandato di promuovere la giustizia e il bene comune”. Il cardinal Bagnasco, presidente della CEI, ha efficacemente sintetizzato nel suo discorso di fine anno, le cause della crisi mondiale iniziata nel 2008 che vede la globalizzazione economica e finanziaria sopravanzare la politica.
Non solo l’economia delle transazioni finanziarie ha superato di gran lunga lo scambio dei beni materiali ma essa si muove in un contesto senza regole adeguate al suo carattere pervasivo. La crisi è la conseguenza di errori e di speculazioni che non hanno trovato limiti nell’azione regolatrice degli Stati e delle istituzioni mondiali.
In un primo tempo le banche hanno esteso il credito generando nuovi mezzi di pagamento e sin dagli anni Novanta la moneta e i titoli di credito sono aumentati in maniera più rapida e in misura maggiore dell’aumento del reddito. Un tempo la finanza serviva per raccogliere i fondi da destinare alla produzione, adesso serve per guadagnare; punto e basta. Si sono così formate delle sacche di liquidità e delle bolle speculative che si sono poi trasformate in crisi di solvibilità e di fiducia. Ciò ha costretto gli Stati ad intervenire per evitare che le banche facessero mancare il credito alle imprese, circostanza che si è peraltro verificata mettendo le aziende in gravi difficoltà.
Così la crisi finanziaria ha finito per coinvolgere anche l’economia dei beni reali, della produzione e del lavoro generando disoccupazione e diminuzione della ricchezza a disposizione della generalità dei cittadini.
La crisi finanziaria ha avuto come conseguenza la privatizzazione dei profitti e la socializzazione delle perdite e le istituzioni finanziarie hanno utilizzato i fondi pubblici per salvare sé stesse e per speculare contro i propri salvatori, cioè gli Stati. Coltivando aspettative totalmente svincolate dai fondamentali economici si è pervenuti alla scelta demenziale di preferire i “bund” tedeschi che rendono pochissimo e di disprezzare i Buoni del Tesoro Italiani che hanno un buon rendimento e non presentano rischi perché l’Italia, terza economia europea, è sicuramente in grado di far fronte al suo enorme debito.
Nel Novecento si è verificata una crescita della ricchezza in misura maggiore dell’aumento della popolazione, ciò nonostante vi sono state numerose crisi; ciò significa che gli errori dei tecnici non bastano a spiegare l’andamento altalenante dell’economia ma vi è una condizione di fondo che rende instabile il ciclo economico. Questa condizione basilare negativa è l’ideologia liberista che postula la illimitata libertà dei mercati ma impedisce che l’autorità pubblica intervenga per fissare le regole della correttezza.
Il mercato si basa sulla fiducia, i patti presuppongono che gli uni si fidino degli altri
e quindi il mercato richiama la necessità di rapporti basati sulla reciprocità e non solo sul tornaconto, cioè su elementi morali. Se non c’è reciprocità, obbligo morale, senso della correttezza anche il funzionamento del mercato viene distorto; sistema morale e sistema economico devono compenetrarsi.
Adam Smith, l’inventore della scienza economica, aveva preso atto che il mercato funziona sulla base dell’interesse personale ed è guidato da una “mano invisibile” che promuove un bene generale che non faceva parte delle intenzioni dei singoli. L’economia non è il mondo della morale e dell’altruismo ma dell’interesse e della concorrenza dove sopravvive il più forte e il più spregiudicato, ma la “mano invisibile” che misteriosamente riusciva a trasformare l’interesse dei singoli in interesse generale aveva introdotto il principio del “laissez faire, laissez passer, le monde va da lui meme”. Il capitalismo, il colonialismo, il sistema monetario del “gold standard” avevano prodotto la prima globalizzazione della “belle epoque” ma la “grande guerra” aveva dimostrato la fragilità del sistema liberista. Dopo la crisi e la grande depressione del 1929 il capitalismo era tecnicamente fallito.
Alla fine del secondo conflitto mondiale l’intervento degli Stati nell’applicazione delle teorie di Keynes del “deficit spending” e di quelle di Beveridge sul “Welfare State”avevano prodotto un nuovo capitalismo dal volto umano che, superando la lotta di classe e incrementando il benessere, aveva consolidato la democrazia in molti Paesi, assicurando per mezzo secolo un periodo di pace e di relativa prosperità.
Nessuno parlava più del liberismo fintanto che, negli anni Settanta, un gruppo di economisti dell’Europa centrale, fuggiti in America davanti al nazismo, che non aveva avuto alcuna possibilità di constatare la crisi del vecchio liberismo e la popolarità che i totalitarismi avevano tratto dall’intervento pubblico in economia, riscoprì il vecchio “credo” e l’interesse che le “corporation” multinazionali per le prospettive di maggior guadagno che esso offriva. Anche i governi non furono insensibili alle possibilità di tagliare le tasse sulla base del ridimensionamento dei servizi pubblici.
Tutte le vecchie ideologie sono scomparse, tranne una, quella “reinventata” dall’economista Milton Friedman che è però un ritorno al passato, ad un capitalismo duro e puro, depurato dalle tesi keynesiane, che si accinge a smantellare metodicamente il “sistema di sicurezza sociale”.
Secondo Friedman e i suoi “Chicago boys” tutti i prezzi, compreso il costo del lavoro, devono essere fissati dal mercato e la sanità, la scuola, le pensioni, le carceri e persino i cimiteri devono essere privatizzati. Si noti bene: “privatizzati” cioè dati ai privati e non “liberalizzati” cioè sottoposti ad un regime di libera concorrenza. L’attuale modello dominante è quello fondato sull’idea darwiniana del mercato dove vincono i più forti; nel mondo globalizzato domina la visione dell’ “homo oeconomicus” che comporta l’aumento delle diseguaglianze, la dissipazione delle risorse naturali e il rischio del collasso ecologico del nostro pianeta.
Soltanto la Chiesa cattolica osa alzare la voce per ribadire che gli uomini sono tutti uguali, che tutti hanno diritto al lavoro come mezzo per salvaguardare la loro dignità e la sopravvivenza, che la proprietà è subordinata alla sua funzione sociale e che tutta la creazione va rispettata.

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