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Attualità

LA VARESE CHE NON C’É

CESARE CHIERICATI - 29/05/2015

palazzo-estenseDue titoli, uno di RMFonline e l’altro della Prealpina, fotografano due stati d’animo e due sguardi diversi su Varese. Il primo su RMF (24 maggio) “Varese, bella addormentata” è dell’amico Gianfranco Fabi, il secondo sulla Prealpina “Dalla caserma a Villa Mylius adesso raccogliamo i frutti” (25 maggio scorso) è il resoconto di una conversazione col sindaco Attilio Fontana.

Fabi, con toni affettuosi e crepuscolari, scrive di una Varese immobile, sempre uguale a se stessa, inossidabile ai cambiamenti che in ultima analisi non vuole ma che spesso ha dovuto subire come una stravaganza inevitabile del progresso. Per dirla con Paolo Conte felice di “stare in fondo alla campagna” lontana dalla tentacolare Milano e persino poco interessata a collegarsi col Nord Europa via Arcisate – Stabio – Mendrisio, sei miseri chilometri impigliati nei soliti italici pantani.

Certo Varese è sempre stata poco reattiva, disattenta alle vicende pubbliche, distratta, scarsamente preoccupata del proprio destino. Così nella sua traiettoria politica, a partire dal dopoguerra, ha lasciato grandi vuoti che gruppi di interesse trasversalmente associati alla politica hanno colmato a loro vantaggio e a discapito di un ordinato e lungimirante sviluppo cittadino. Per tre lustri quelle forze hanno ipotecato il futuro con un piano regolatore con indici di edificabilità che, se interamente sfruttati, avrebbero potuto trasformarla in una megalopoli di 700 mila abitanti.

La città si automutilò, si autoferì fino all’abbattimento delle volumetrie da parte dell’allora assessore all’urbanistica Luigi Ambrosoli (1964) che solo in parte riuscì a mitigare quello scellerato assalto all’impianto a giardini del capoluogo. Ma il patto cementizio solido, duraturo, impermeabile ai cambiamenti si protrasse, sia pure in forma più morbida, anche nei decenni successivi dove furono mancate, una dopo l’altra, alcune scelte strategiche: il teatro, le tangenziali, il completamento di Corso Europa, gli impianti sportivi al servizio delle scuole (l’ex campo Passerini a Casbeno era stato già consegnato alla speculazione edilreligiosa), la mancata salvaguarda di colline come Sangallo e Montello del tutto o in parte massacrate e via elencando fino al capolavoro di Piazza Repubblica, il tumore urbano con le sue metastasi giudiziarie, cui oggi, vent’anni dopo, si cerca sbrigativamente di porre rimedio.

La Lega nei primi ‘90 ereditò una città in difficoltà, smarrita. Persino i Giardini pubblici erano semi abbandonati con il laghetto chiuso e i cigni cucinati in pineta da un gruppo di balordi una notte d’inverno. Promise grandi progetti e vigorosa attenzione alla manutenzione ordinaria, al decoro urbano. Salvo la riuscita pedonalizzazione di una fetta del centro storico e il rilancio mutilato e oneroso della funicolare del Sacro Monte non c’è granché da ricordare. Molti nodi intanto venivano al pettine come quello dell’illuminazione pubblica precaria e agonizzante fin dai tempi della prima giunta Fumagalli.

Piccolo, impettito e autoreferenziale cabotaggio politico amministrativo quello degli ultimi vent’anni segnati, è vero, dalla grande stretta di bilancio sugli enti locali, ma pure da qualche spreco di troppo, tutto locale, come il fallimentare trambus di cui i varesini hanno smarrito il ricordo e altre amenità.

Giunto al nono anno della sua esperienza amministrativa il sindaco Fontana, come è umanamente comprensibile, rivendica meriti e realizzazioni però, guarda caso, quasi tutte coniugate al futuro: il parcheggio di via Sempione, l’area ex Malerba, l’utilizzo di Villa Mylius e altro ancora, tutte questioni aperte e di incerto esito. È come se un amministratore delegato di un’azienda ignorasse la perdita certa del bilancio consuntivo e si rallegrasse invece per un utile in quello preventivo che, come tutti sanno, è sempre assai aleatorio. Come aleatorio e di incerto esito, nonostante la grancassa mediatica e l’acriticità delle gazzette locali, resta il faraonico progetto di Piazza Repubblica veicolato da un masterplan catapultato sulla città come un’astronave venuta dalla spazio senza una preventiva, capillare, accurata e partecipata analisi delle esigenze ambientali, abitative e commerciali dell’intero comparto.

 

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