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Società

VITE IN COMUNE

CAMILLO MASSIMO FIORI - 30/10/2015

“Si fa ma non si dice”: la politica (come la vita) è sempre legata a un filo di ipocrisia per rendere possibile, o quanto meno più facile, raggiungere degli esiti impopolari ma necessari o, viceversa, dei fini popolari ma eticamente discutibili.

È il caso del progetto di legge in discussione al Parlamento che introduce nel nostro ordinamento giuridico una legge che riconosce le cosiddette unioni civili tra due persone (in pratica quelle omosessuali) che vogliono mettere in comune le loro vite.

È questa una realtà molto diffusa nel mondo occidentale dove si è estesa una mentalità individualista e relativista come risultato della cultura neo-liberista prevalente che pone alla base del proprio progetto di vita la volontà soggettiva, i desideri, gli orientamenti e le scelte conseguenti anziché i valori tradizionali.

In meno di un secolo la condizione omosessuale si è completamente ribaltata: soltanto pochi decenni fa tale visione era riprovata e, in molti casi, soggetta a sanzioni quando dallo spazio privato irrompeva in quello pubblico. Adesso, in nome della libertà e dei diritti umani, le situazioni di devianza non solo sono accettate ma costituiscono una intrigante moda.

L’attuale progetto di unioni civili, presentato da un esponente del Partito Democratico (che non è mai stato molto attento al problema dei valori e dove i cattolici sono una presenza insignificante) trova consenso in molte forze politiche.

Per dirla tutta, quello che viene presentato è un simil-matrimonio, un matrimonio camuffato; sotto la spinta egualitaria si riconoscono diritti uguali a coppie di persone che uguali non sono, e ciò è una palese ingiustizia.

In tutte le epoche, in tutti i popoli e in tutte le culture è il matrimonio tra uomo e donna a costituire la forma di unione e di convivenza allo scopo di procreare, trasmettere la vita e assicurare la continuità della specie.

Senza il dono della vita la comunità si estinguerebbe in breve tempo e già adesso, in Europa, il basso tasso demografico lascia prevedere il dimezzamento della popolazione originale ad ogni passaggio di generazione. Inoltre la famiglia assicura un insostituibile processo educativo e, in un contesto di crisi come l’attuale, funge anche da ammortizzatore per i membri più deboli; è attraverso la famiglia che le persone imparano la solidarietà, scoprono i rapporti di parentela e di prossimità, maturano valori condivisi che assicurano la coesione sociale; scoprono l’appartenenza alla comunità.

L’artificiosa costruzione della teoria del “gender”, che vuol negare la differenza tra le persone di diverso sesso e cerca di attribuire il genere a fattori soggettivi di preferenza, non ha senso ed è francamente bizzarra. La teoria è una vera e propria truffa culturale che ha lasciato indifferente sia il mondo intellettuale che quello politico.

La preminenza che il legislatore ha sempre attribuito all’istituto familiare deriva dal riconoscimento delle insostituibili funzioni svolte dalla famiglia che costituisce uno dei massimi beni pubblici.

Non così in Italia dove lo Stato sta investendo tantissime energie e risorse per queste forme di unioni particolari ma relega in un angolo le famiglie tradizionali che sono il pilastro della società

Quando la famiglia va in crisi, anche l’economia ne risente e la società si sfalda e si frantuma negli egoismi individuali.

La famiglia non è un problema solo della Chiesa, non è soltanto un sacramento, anche il matrimonio civile è un valore; l’unione civile no; la scelta tra l’una e l’altra forma di unione è una realtà civica che interessa tutta la società. È vero che il matrimonio cattolico non viene messo in discussione; del resto la Chiesa rispetta anche l’unione laica tra i coniugi di diverso sesso ai fini della convivenza e della procreazione, ma è l’intera società che viene danneggiata dal relativismo con cui il nuovo istituto giuridico viene presentato La comunità vive anche di simboli, di tradizioni, intorno a cui si costruiscono valori condivisi che distinguono l’identità di un popolo e ne assicurano la coesione e la continuità generazionale. Non è soltanto l’incontro di diverse culture che deve preoccupare ma anche l’emergere di “nuove” culture basate sulle mode e sugli interessi individualistici.

La Chiesa fa appello non solo alla coerenza dei cattolici, ma alla coscienza dei laici anche rispetto alla adottabilità dei figli da parte del “partner” della coppia, nell’ambito delle unioni civili.

La stepchild adoption andrebbe incontro all’annunciato desiderio degli omosessuali di avere dei figli attraverso tecniche di fecondazione artificiale che, per quanto attualmente limitate o proibite, non farebbero desistere la comunità gay dal chiedere la successiva liberalizzazione, secondo la sperimentata tecnica della gradualità. Si noti: nelle coppie “normali” l’adozione deve essere deliberata dal giudice dopo almeno tre anni di matrimonio.

Riserve si possono pure porre sul riconoscimento della reversibilità della pensione: se due sorelle vivono con la pensione sociale non ne hanno diritto, se si tratta invece di due estranee che si “sposano” sì. Non è un’ingiustizia?

Riconoscere i giusti diritti alle persone omosessuali non può cancellare la supremazia che il legislatore ha sempre riconosciuto alle famiglie per le loro molteplici funzioni educative e sociali.

L’unione familiare attraverso il matrimonio non può essere equiparata ad una relazione sentimentale tra persone dello stesso sesso.

P.S. Ci sono molte persone con un “curriculum” scolastico medio-alto, spesso laureati, che leggono uno o più quotidiani, maneggiano con abilità l’immancabile smartphone e frequentano internet con assiduità. Ciò nondimeno, su un problema eticamente sensibile e socialmente complesso come quello delle “unioni civili” hanno opinioni affatto superficiali: “sono fatti loro che non mi riguardano, facciano quel che credono”.

Il loro livello di informazione è ampio e aggiornato ma del tutto privo di profondità, si limita ai titoli dell’agenda pubblica.

Con queste premesse il loro atteggiamento è di tipo conformistico, seguono l’opinione prevalente, non sanno discernere ciò che è valido da ciò che è futile e dannoso, le loro scelte sono spesso fuorvianti e il loro apporto alla discussione pubblica insignificante.

La mia nonna materna proveniva dal mondo contadino e come la gran parte delle donne di quell’epoca e della sua condizione sociale era analfabeta; aveva frequentato la terza elementare ma non sapeva né leggere né scrivere, era solo in grado di apporre la sua firma. Eppure tra il vasto parentado aveva un ruolo preminente: la sua naturale sapienza come esito di una vita di dispiaceri e di dolori, sorretta da una profonda fede cristiana e spontaneamente aperta all’empatia verso il prossimo. A lei si rivolgevano parenti e amici, anche di rango sociale superiore e professionalmente affermati, per avere suggerimenti e consigli di fronte alle situazioni difficili e per affrontare scelte impegnative. Pensando a lei mi viene da riflettere sulla differenza tra istruzione e cultura: la prima è una grande conquista civile, ma la seconda è un autentico valore.

(C.M.F).

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