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Editoriale

REFERENDUM

GIUSEPPE ADAMOLI - 29/01/2016

Palazzo Madama, sede del Senato

Palazzo Madama, sede del Senato

Stiamo correndo verso il referendum costituzionale del prossimo ottobre. L’ultimo passaggio di marzo/aprile alla Camera sarà solo una formalità. Che Renzi affermi che il suo governo si dimetterà se prevale il voto contrario è comprensibile, ma è improprio e fuorviante dare al referendum il significato di un voto sulla sua persona. È però innegabile che i suoi oppositori avevano impostato la stessa operazione politica ancor prima di lui.

La posta in palio è alta. L’osservazione negativa più gettonata è che si alterano pericolosamente i pesi e i contrappesi che i Costituenti avevano immaginato per rendere più stabile e sicura la nostra democrazia. In effetti Dc e Pci erano allarmati che una delle due forze potesse vincere e governare da sola ed avevano ingessato la funzione governativa dentro un rigido sistema di garanzie che ne frenava l’azione. Oggi quella contrapposizione di sistema e di visione del mondo non esiste più, la società e l’economia si trasformano con una rapidità impressionante, serve un’efficienza governativa al passo coi tempi.

Le stranezze del cammino di questa riforma non mancano. Ne cito solo due di cui la prima riguarda il centrosinistra. La fine del bicameralismo paritario, la fiducia al governo di una sola Camera, la sostituzione del Senato elettivo con la Camera delle Regioni e delle Autonomie locali erano nei programmi quasi unanimi di questo schieramento. Qualcuno ha cambiato legittimamente idea, altri pensavano che questo sarebbe stato il solito “libro dei sogni” che nessun avrebbe mai tirato fuori dal cassetto. Una sorpresa profonda e positiva.

La seconda stranezza riguarda il cartello degli oppositori antropologicamente diversissimi. Accanto ai sostenitori dell’intoccabilità della Costituzione, si trovano quelli, come il blocco Lega-Forza Italia, che la Costituzione l’avevano cambiata alcuni anni fa ed erano stati sconfitti dal referendum del 2006. Di più, i berlusconiani avevano concorso alla prima versione di questa riforma e, se il Pd non avesse portato Sergio Mattarella alla presidenza della Repubblica, probabilmente il cosiddetto Patto del Nazareno (sulle Istituzioni) sarebbe in vita ancora oggi.

Io sono tra i sostenitori della riforma ma non è che non veda i suoi lati problematici. Uno è ormai storia: era preferibile un fronte più vasto in Parlamento. Ma anche la riforma del 2006 (già citata) era passato solo con i voti della maggioranza Berlusconi-Bossi, esattamente come la riforma dell’Ulivo del 2001 relativa al Titolo Quinto sul rapporto Stato-Regioni, approvata dal successivo referendum.

Un altro lato problematico (temo di essere in netta minoranza) è il rischio del centralismo. Alcune competenze sono state giustamente riportate dalle Regioni allo Stato ma l’impianto autonomistico ne esce indebolito. So bene, però, e già lo dicevo quando da presidente della commissione Statuto della Lombardia giravo per l’Italia, che questo filo del discorso potrà essere ripreso solo se le Regioni saranno ristrutturate e dimezzate.

Un terzo lato problematico è costituito dagli inevitabili rimandi a future leggi di attuazione della riforma. Come sarà la legge elettorale del nuovo Senato? Come si stabilizzerà l’equilibrio del nuovo sistema? I fautori della riforma farebbero bene ad accogliere l’invito di una parte dei costituzionalisti presentando in anticipo, a scopo informativo, un pacchetto di proposte che rispondano a queste (ed altre) importanti domande.
Il Paese sta finalmente uscendo dalle secche dell’immobilismo ma è giusto che conosca sempre meglio quale sarà il futuro approdo istituzionale.

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