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Cultura

IL MARKETING DELLA CRIPTA

SERGIO REDAELLI - 19/02/2016

Pandolce giromette e mustazitt (foto Paola Monestier)

C’è un nuovo pellegrino che bussa alla porta di Santa Maria del Monte, è il marketing manager. Arte, spiritualità, silenzio, contemplazione, tutto s’inchina alle esigenze del bilancio, alla spending review, alle regole del mercato: anche la commercializzazione del sacro. In fondo è giusto, Assisi e Loreto insegnano. Nel santuario è aperto il cantiere per risolvere una serie di problemi piuttosto seri e costosi: lo sbriciolamento della balaustra, la crepa sul muro nella sala delle beate, la caduta d’intonaci nella zona del transetto; e la Via Sacra ha bisogno di altre opere urgenti. Finiti i soldi dell’eredità Macchi e potendo contare solo sulla (generosa) partecipazione della Fondazione Cariplo, prima o poi dovevano arrivare le iniziative turistiche che sposano il sacro e il profano.

La prima trovata è la romantica serata di San Valentino che la società Archeologistics, gestore del museo Pogliaghi, ha proposto domenica 14 febbraio abbinando la visita della cripta alla cena al ristorante Sacro Monte: ritrovo alle 19 sulla terrazza del Mosè, passeggiata alla cripta con visita guidata agli affreschi medievali da poco restaurati e alle 20 tutti a tavola. Menù a base di antipasto con crudo di Parma, speck e verdure grigliate, risotto allo zafferano con gamberetti, zucchine e gamberone, filetti di branzino al forno con verdure miste, dessert, vino chardonnay bianco, acqua e caffè; costo della serata settanta euro a coppia con visita guidata, biglietti e cena. Risultato: quarantadue avventori paganti, un successo anche se c’erano pochi giovani.

La cripta funziona come attrattiva, non c’è dubbio, ma l’offerta culinaria è migliorabile; anziché i gamberoni di mare e il branzino al forno che sono perfetti a Portofino o nelle trattorie di Sorrento, perché non proporre piatti più aderenti alla cultura gastronomica nostrana? Magari non la solita polenta e bruscitti o l’ormai leggendaria “frittura picava” (fettine di vitello infarinate e rosolate nell’olio, cosparse di prezzemolo e ammorbidite con il vino bianco) ma, perché no?, una gustosa faraona alla creta, ricetta classica del Varesotto un tempo ricco di fornaci, quando gli operai cuocevano polli e volatili nei cocci della farinosa varietà di calcare.

Dal santuario si ammirano sette laghi e volendo proporre un piatto di magro, si potrebbe servire un filetto di persico o il lavarello in carpione, coperto di verdure cotte in aceto e vino secondo l’antico modo di conservare il pesce intorno al lago di Varese. Se il Sacro Monte vuole sviluppare un originale marketing culinario – ed è un’ottima idea – perché non orientarsi verso i prodotti tipici a chilometro zero, formaggi, salumi e miele nostrani? A un generico chardonnay da supermercato, è preferibile un profumato bianco della sponda lombarda del lago Maggiore e per i rossi c’è l’imbarazzo della scelta tra le cantine di Morazzone, Angera e Sesto Calende, anche per premiare gli sforzi dei coraggiosi produttori varesini.

Per dessert, infine, una vasta letteratura sublima i tradizionali mustazitt, biscotti speziati da sgranocchiare già contemplati nel cinquecentesco libro di cucina dello “chef” dumentino Bartolomeo Scappi, di cui qualche massaia locale conserva la ricetta; per non parlare del pandolce, da gustare magari con l’infuso d’erbe del Sacro Monte o con una profumata grappa di Angera, da meditazione, almeno quella! La simpatica ristoratrice Antonella Robusti, comasca, fa notare che molti piatti tipici sono già inseriti nei menu: polenta, gorgonzola e funghi, riso e pesce persico, zuppa di cipolle e petto d’anatra. Benissimo, allora perché non proporli? E se vuole attirare i giovani non scordi le sempre più diffuse ricette vegetariane e vegane.

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