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Cultura

ROSMINI AL SACRO MONTE

SERGIO REDAELLI - 06/05/2016

Non sempre e non tutti i viaggiatori che salgono al Sacro Monte di Varese ne ridiscendono soddisfatti. Restò deluso, per esempio, il giornalista e scrittore napoletano Ruggero Bonghi, che il 3 giugno 1852 accompagnò al santuario l’abate Antonio Rosmini, carissimo amico di Alessandro Manzoni. L’abate percorse il viale delle Cappelle pregando devotamente e Bonghi, meno interessato al raccoglimento religioso, ammirò il panorama ma rimase sconcertato dalla vista delle statue, dei dipinti e delle cappelle che man mano incontrava e che non gli piacquero.

Bonghi ha lasciato una fresca descrizione della visita nel diario “I fatti miei e i miei pensieri”, edito a Firenze nel 1927 dall’editore Vallecchi. Il racconto s’intitola “A Varese”: “Il tre (giugno 1852, nda) son salito su al Sacro Monte che è bello più per quel che gli ha dato la natura, che per quello che gli ha aggiunto l’arte. Le quindici cappelle sono mediocri d’architettura: pure meno che di pittura e di scultura. I misteri sono rappresentati in istatue di creta dipinte. Il Rosmini ha recitato il Rosario salendo e pareva contentissimo. Fa queste orazioni con grande semplicità, e si vede, con gusto e con fede. Su al Monte ha recitato la Messa. Poi il Rettore della Chiesa ci ha mostrato i corpi di una Beata Caterina da Pallanza e d’una sua compagna che hanno fondato lassù un convento di monache”.

Ai severi giudizi sul valore artistico di quello che oggi è stato dichiarato patrimonio dell’umanità, Bonghi – che era ospite del Rosmini a villa Bolongaro di Stresa – aggiunge interessanti dettagli sul clima di paura in cui viveva allora il clero sotto l’Austria: “(Il rettore della chiesa, nda) era persona gentilissima e di senno. Diceva come il clero fosse più servo ora in Austria che non ai tempi di Giuseppe II e che i suoi coadiutori non volevano predicare per paura delle spie; che la Chiesa era lasciata fare quel che voleva, a patto che il Governo sapesse tutto quel che faceva e ch’ella non facesse altro che quel che voleva il Governo”.      

Scesi dal monte, i due amici visitarono la chiesa parrocchiale di Varese “che è graziosa molto e piena di bei legni intagliati e di buona pittura di scuola lombarda, tra gli altri i freschi di Gaudenzio Ferrari”, proseguirono “in carrozzino” per Laveno e rientrarono a Stresa a bordo di un vapore austriaco, non senza aver notato – scrive Bonghi – che “a Laveno gli austriaci fanno grandi fortificazioni, colle quali unite al vapore e a quattro barche cannoniere saranno in un’altra guerra padroni del lago, anche se D’Azeglio è convinto che le sorti d’Europa non si decideranno con una battaglia navale sul lago Maggiore”.

Ruggero Bonghi, destinato a diventare ministro dell’istruzione del Regno d’Italia, è noto soprattutto per aver scritto Le Stresiane in cui descrisse i dialoghi metafisici che l’abate Rosmini intratteneva a Stresa con l’amico fraterno Alessandro Manzoni che abitava nella vicina Lesa. Sacerdote, filosofo, storico e difensore dell’Unità d’Italia, Rosmini vagheggiava la riforma della Chiesa, l’indipendenza del papa dal governo politico e un’accurata formazione del clero. Era una posizione audace che, nel 1849, nonostante l’amicizia e la stima di Pio IX, gli costò la condanna del libro “Le cinque piaghe” da parte della Congregazione generale dell’Indice.

L’abate e don Lisander, grandi camminatori, amavano fare lunghe passeggiate discorrendo di temi filosofici e a volte passavano la cresta del Vergante attraverso Gignese e Armeno spingendosi verso i colli del Cusio, portandosi dietro un mulo con le cibarie e uno stuolo di prelati. Così Bonghi tratteggia l’intima amicizia tra i due intellettuali: “Tra le due nature, così diverse per molti rispetti, v’erano due parti simili, una gran fiducia nel ragionare serrato ed una persuasione profonda della verità del cattolicesimo. Il Manzoni tuttavia sentiva nell’amico una natura superiore e questo suo sentimento si manifestava in un ossequio profondo e schietto”.

Prosegue Bonghi: “Alla sua convinzione religiosa il Rosmini aveva sacrificato una gran sostanza e tutta la sua vita. La sua immagine, quindi, si rivestiva agli occhi dell’altro di quella suprema dignità che nasce dal fare con costanza di proposito il bene, dal mescolarsi al consorzio umano per esercitare sopra esso un’azione continua che lo migliori”.

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