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Spettacoli

IL CINEMA DI MELVILLE

BARBARA MAJORINO - 11/11/2016

????????????????????Chi si occupa di cinema e in particolare di noir conosce questo regista francese, che i cineasti della Nouvelle Vague salutarono come loro maestro. Ma Jean-Pierre Melville dal carattere introverso e scontroso, non volle mai veramente far parte di scuole né conventicole registiche e cinematografiche.

 Già il suo nome richiama il grande romanziere americano Herman Melville (all’anagrafe è Jean-Pierre Grumbach). Durante la seconda guerra mondiale combatte nelle file della Resistenza francese e se lo attribuì quale nome di battaglia, proprio in omaggio all’autore di Moby Dick. In seguito a ciò, resta JPM per sempre, e collabora all’Operazione Dragoon, lo sbarco delle truppe alleate nel sud della Francia. Dalle sue esperienze di guerra, ricaverà poi il film L’armata degli eroi (L’Armée des ombres) (1969), ispirato al romanzo del 1943 di Joseph Kessel, dirigendo sul grande schermo interpreti come Lino Ventura, Paul Meurisse, Jean-Pierre Cassel (padre dell’attore Vincent), Alain Delon e Simone Signoret.

 Uomo introverso, dotato di personalità complessa e scontrosa, appassionato sin dall’infanzia di cinema, matura una profonda ammirazione per la cultura statunitense tanto da assimilarne gli atteggiamenti feticisti per il resto della vita. Con JPM nasce il polar, genere cinematografico e letterario, neologismo francese nato dalla fusione dei termini poliziesco policier e noir. Il polar identifica un genere di romanzi e film dalle note cupe e introspettive caratteristiche del noir, i cui protagonisti però sono tipicamente appartenenti alle forze dell’ordine, spesso coinvolti in un percorso catartico o di mutamento della propria esistenza.

 Una volta congedatosi dalle armi, Melville cerca di ottenere dal Sindacato dei Tecnici una tessera di assistente-tirocinante per diventare regista, ma gli viene rifiutata e da quel momento decide di autofinanziare i propri film. Dopo un primo cortometraggio in 16 mm, l’esordio cinematografico avviene nel 1947 con “Il silenzio del mare” (Le silence de la mer) dal testo omonimo di Vercors. La ristrettezza dei mezzi e le riprese rocambolesche non minano il notevole esito della pellicola che gli dà subito fama di intellettuale esperto, specialista in trasposizioni letterarie sullo schermo.

 Bob il giocatore (1955) è il suo primo film “noir”, influenzato fortemente da alcuni capisaldi americani e francesi, quali Giungla d’asfalto ((1950) di John Huston, La fiamma del peccato (1944) di Billy Wilder. Nel cuore di Parigi JPM dà avvio a un piccolo e anomalo caso di indipendenza produttiva, audace per l’epoca ma ben organizzato, suscitando l’ostilità corporativa delle istituzioni cinematografiche francesi. Viene invece considerato un precursore dai giovani emergenti della Nouvelle Vague come Truffaut, Godard e Chabrol, che in lui apprezzano anche lo stile registico scabro e aderente alla realtà (molte riprese in esterni, budget ridotti, utilizzo di attori semisconosciuti, rifiuto del maquillage). Pertanto viene simbolicamente arruolato da Jean-Luc Godard ad interpretare il ruolo dello scrittore Parvulesco in Fino all’ultimo respiro (À bout de souffle) -1959. Dopotutto JPM ha una fisionomia di caratterista dark.

La successiva vocazione di Melville verso un cinema di genere, al tempo stesso classico e astratto, ma sempre destinato a un vasto pubblico e non a ristrette élites, lo allontanerà gradualmente dal movimento dei cineasti emergenti, finché nel 1968 sentendosi concettualmente sempre più estraneo, interromperà polemicamente i rapporti attirandosi un prolungato ostracismo da parte dei Cahiers du cinéma e della critica ad essi collegata.

Ritorna con successo alle gangster story dirigendo Lo spione (Le doulos) e Lo sciacallo (L’aîné des Ferchaux) tratto dall’omonimo romanzo di Georges Simenon, sviluppando ulteriormente alcune peculiarità, quali l’atmosfera priva di speranza (derivata dall’ hard boiled, la scuola dei duri americani), la geometria dell’intreccio, l’espressione idealizzata della centralità maschile con annessa una certa misoginia.

“Lo sciacallo”, con la simpatica canaglia JP Belmondo è un noir on the road interamente costruito in Francia con un’America sognata e ricostruita in studio che è per il regista una sorta di lost paradise. Costretto a rinunciare a una carriera di pugile, il giovane Michel Maudet (Belmondo) è stato assunto come segretario di un vecchio banchiere, Dieudonné Ferchaux che lascia la Francia per sfuggire alla giustizia per questioni fiscali. A New York e poi a New Orleans, i due uomini imparano a conoscersi meglio durante il gioco sottilmente perverso del gatto col topo. Forse un rapporto filiale dell’anziano banchiere col suo segretario, o forse un’omosessualità latente, mai palesemente espressa. Sapiente uso del colore in chiave fortemente simbolica.

Tutte le ore feriscono, l’ultima uccide, titolo distribuito in Italia dal francese Le dexième souffle. Tre uomini, un’evasione nella notte. Tra questi Gustave Minda, detto Gu, che si reca a Parigi per rivedere la sua donna Manouche. La trova che sta con Jacques il Notaio, ma l’uomo viene ammazzato nel proprio locale davanti ai suoi occhi. La mala di Marsiglia si scontra violentemente con quella di Parigi per il dominio del contrabbando di sigarette. Gu medita l’esilio in Italia, ma qualcuno gli propone di assaltare un blindato carico di platino. L’ispettore Blot, della Omicidi, è sulle sue tracce.

 Siamo al presagio, alla previsione potenziale di un’opera che cammina a fiammate (silenzio – moto – sangue); Le deuxième souffle prende di partenza lo stilema americano e lo ravviva, come sempre nell’autore, estenuandolo da una parte e dall’altra. Nelle scene puramente criminose, caratterizzate da una costitutiva stesura degli archetipi (il poliziotto, il fuorilegge, la banda, l’amante), i dialoghi escono di bocca come incisioni lapidee, alla stregua di sentenze che iscrivono ogni figura al proprio ruolo inesorabile. Tali premesse, in mano a Melville, si piegano alla dialettica costante tra due momenti, sospensione e esplosione, dove l’uno non è meno incisivo dell’altro. Ancora costante poetica, su piano sostanziale il cacciatore e la preda si scambiano sguardi di profondo rispetto, risultando nettamente speculari, e intavolano una lotta archetipica dal sapore mitologico; il paramento morale impone l’ onore delle armi, che il vincitore concederà naturalmente al vinto, come atto prestabilito già segnato nell’ordine delle cose.

A margine: il titolo italiano, Tutte le ore feriscono… l’ultima uccide, suona talmente fuori luogo e fieramente retrò da seminare perfino un fascino sottile. Importante, la collaborazione di JPM con Alain Delon nell’indimenticabile interpretazione di Frank Costello faccia d’angelo, film nel quale Delon è praticamente silente quanto spietato. Il film segna l’inizio della loro collaborazione che sarebbe continuata con I senza nome (1970) e Notte sulla città (1972), sino alla morte del regista.

È forse uno dei punti più elevati del polar. In effetti, sin dalla frase che appare all’inizio (“Non esiste solitudine più profonda del samurai, se non quella della tigre nella giungla”) e che spiega il titolo originale (Le Samouraï), è evidente l’ispirazione di Melville, da sempre ambasciatore del cinema americano in Francia a quel modello di “killer esistenziale”, già individuato nel prototipo nel Philip Raven, interpretato da Alan Ladd, in Il fuorilegge di Frank Tuttle, ispirato al romanzo “Una pistola in vendita” di Graham Greene. (“…non il gangster come esponente della malavita organizzata o comunque come criminale immerso in un preciso quadro sociale, ma assassino solitario che si distacca anche dagli abituali connotati etnici per risolvere il suo tragitto in un personale confronto con la morte”). La tessitura del film è arricchita da riferimenti alla cultura giapponese.

Artista solitario e controverso, maniacale controllore di tutte le fasi della lavorazione (curava operativamente persino il montaggio alla moviola), Melville è stato largamente incompreso dalla critica specializzata. In seguito ad alcuni omaggi e studi inediti postumi, è stato ampiamente rivalutato fino alla consacrazione come uno dei più importanti innovatori della decima musa. Un contributo fondamentale alla sua riscoperta è stato fornito negli anni ’90 da alcuni registi delle nuove generazioni cimentatisi nel “polar” (soprattutto americani ed asiatici), debitori dichiarati del suo cinema singolare. Basti ricordare: Michael Mann (Heat – La sfida, 1995), Quentin Tarantino (Le iene, 1992), Takeshi Kitano (Sonatine, 1993), John Woo (The Killer, 1989 e Jim Jarmusch (Ghost Dog, 1999). È il caso di dire che sono tutti figli suoi.

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